Liberarsi dal “rodarismo”, ripartire da Rodari
Diciamoci la verità: da un po’ di tempo, da un bel po’ di tempo, il nome di Gianni Rodari è diventato come il prezzemolo, sta dappertutto. Nella scuola non vi sono attività opzionali o eventi creativi che non ritengano doveroso pagare la loro cambiale alla “Grammatica della fantasia”, e i precetti di quell’aureo libretto circolano, anche fuori dalla scuola, come slogan prêt-à-porter fra un “Il mezzo è il messaggio” (Marshall McLuahn) e un “Non ci sono più le stagioni di una volta”. Lo stagno, stracolmo di sassi, sta per esondare, gli eroi di fiabe rovesciate da tutte le parti sono finiti dall’analista in crisi di identità, il futuro – Sold Out! – non accetta più prelazioni circa “che cosa accadde dopo”. Fuor di metafora: Rodari è diventato un classico e, com’è successo a tanti altri classici, la vera voce della sua opera è distorta da ciò che nella teoria dell’informazione si chiama “rumore”, tutto quello che nel tempo è andato ostruendo il canale di trasmissione. Così, ricitando McLuahn, davvero il mezzo, cioè gli strumenti e le tecniche inventate o suggerite da Rodari, rischia di passare come messaggio, il “solo” messaggio, del suo assai più articolato lavoro di scrittore, giornalista e intellettuale, o addirittura di trasformarsi in fine.
Marcello Argilli, scrittore per bambini e ragazzi, ma soprattutto amico e studioso di Rodari, in una biografia uscita nel 1990 sottolineava con amarezza questa classicità “silenziatoria” nella quale egli, scomparso da dieci anni, era già incorso: “La scuola filtra l’opera di Rodari, utilizzandone soprattutto la componente che considera più funzionale e compatibile con essa. Ancora oggi, infatti, vengono tralasciati i testi nei quali si esprimono più compiutamente la creatività linguistica e la fantasia trasgressiva, fortemente sociale, libertaria, utopistica, radicalmente antimilitarista [egli] è ufficializzato in tutte le scuole, e in genere usato in modo più evasivamente ludico che letterariamente stimolante” (“Gianni Rodari. Una biografia”, Torino, Einaudi, 1990). Nel 2010, trentennale della morte, gli omaggi si sono inevitabilmente sprecati, ma il loro tono commemorativo ha confermato le osservazioni appena riportate. Ci si è in gran parte dimenticati che, anche se lui non lo ha mai voluto considerare tale per umiltà, quello di Rodari è, se preso nel suo insieme, un metodo, nel senso etimologico della parola che implica volontà di trasformazione; che, e questo lo disse e scrisse a chiare lettere, l’immaginazione non è pura e semplice fantasticheria, ma una forma di educazione all’utopia e, quindi, un movimento “dall’accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all’impegno per trasformarlo” (“Pro e contro la fiaba”, Paese Sera, 1970) ; che, ed è il retaggio più prezioso del suo pensiero per noi oggi, quando la scuola torna a mostrarsi in forme che egli non avrebbe esitato ad aborrire, “Non è indispensabile, per una grande fabbrica di automobili, che i tornitori amino Beethoven (…) Ma l’ideale educativo dell’ufficio personale di una grande azienda, privata o pubblica, non è necessariamente il migliore degli ideali educativi. Un uomo completo è un’altra cosa” (idem).
A fare ogni giorno i conti con una scuola che a un’azienda già assomiglia, e che magari vorrebbe assomigliarvi ancora di più, viene da pensare che forse è arrivata l’ora di chiudere un po’ di “Premiati Rodarifici” per riaprire la fucina di un “pensiero divergente”, capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza”, un habitus per menti “sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti” (“Grammatica della fantasia”). Il che servirebbe, fra l’altro, anche a smorzare certi equivoci; per esempio, che si possa sorvolare sulla verifica della bontà di un modello e dei suoi strumenti: la didattica creativa, l’approccio ludico, il sovvertimento degli steccati gerarchici, il corroboramento di routine scolastiche spente e ingrigite. Benissimo, ma per quel che ho capito io, quando Rodari andava per scuole, lì dove andava si faceva “lezione”, anche se in forme alternative. La mia esperienza di volontariato nella scuola primaria, come collaboratore di insegnanti proprio nel campo delle attività creative (arte, poesia, narrazione, e via dicendo) mi conferma, ahimè, le cose dette da Argilli: manca il coraggio di considerare il corpus rodariano come sistema e si spilucca qua e là nel suo repertorio di solito per rabberciare qualche laboratorio (e, dulcis in fundo, se ne documentano i risultati in formule burocratiche e moduli prestampati, in barba alla creatività). Sono anche malintesi di questo tipo ad offrire il fianco a certi detrattori di Rodari, ultima in ordine di tempo la Paola Mastrocola nel famigerato “Togliamo il disturbo” (al quale forse stiamo dando anche troppa importanza); nel testo però, a parte l’affermazione risibile che Rodari “ha creato la scuola elementare così com’è oggi (e forse anche la scuola materna e la scuola media…)”, vi sono osservazioni meno risibili che infatti si accordano con quelle di Argilli (la differenza è che, là dove questo incolpava giustamente i falsi emuli, quella incrimina capziosamente il prototipo: c’è sempre qualcuno che, quando il dito indica la luna, guarda il dito).
Allora, per evitare che Rodari venga deprezzato, mistificato, o peggio messo in sordina, ciascuno di noi faccia la sua parte meglio che può; insegnanti, educatori, genitori, dimostriamo che la sua opera non serve soltanto a confezionare allegre storielle e filastrocche, ma che è stata e rimane una delle esperienze di innovazione pedagogica più brillanti, e allo stesso tempo genuine e praticabili, della nostra storia recente. Liberiamoci dal “rodarismo”, riprendiamoci Rodari.
Cesare Iacono Isidoro