La carica dei seicento
Alcune considerazioni sulla lettera indirizzata al Governo da seicento docenti universitari il 4 febbraio scorso.
“E’ meglio insegnare nelle università a studenti che padroneggiano perfettamente la lingua italiana, hanno un consapevole controllo dei processi meta e plurilinguistici che consentono una espressione scritta e orale corretta e la capacità di scegliere registri linguistici adatti a molteplici contesti e funzionali alle diverse forme di interazione sociale, piuttosto che insegnare a studenti che non hanno raggiunto questi livelli.” Questa non è una massima di M. Catalano, il fortunato personaggio di Quelli della notte, ma, absit iniura verbis, il succo che si ricava dalla lettera indirizzata al Governo da seicento docenti universitari il 4 febbraio scorso.
Non vale la pena di prendere qui in considerazione i successivi, sguaiati corollari che hanno trovato spazio sulla stampa di informazione, appare piuttosto utile dar conto di un interessante incontro che il Centro di Ricerca per la Didattica dell’Italiano ha tenuto il 6 marzo a Bologna intorno al quesito “l’italiano è in declino?”
Il tema, articolato come riflessione sulle competenze linguistiche tra scuola e università, ha focalizzato almeno tre aspetti, che forse ai seicento firmatari sono sfuggiti.
Il primo è un’attenta ricostruzione storica del difficile, lento percorso volto a garantito a tutti i cittadini italiani il diritto ad una istruzione degna di un paese democratico, così come recita il testo della costituzione. Gli almeno otto anni di scolarità obbligatoria, hanno trovato una definizione legislativa solo nella legge di riforma della scuola media inferiore nel 1962 e, faticosamente, solo nel 2007 questo diritto è stato esteso ai primi due anni del secondo ciclo di istruzione, con grande ritardo rispetto a quanto, da anni, accadeva già in quasi tutti i paesi, con i quali l’Italia si confronta nella comparazione internazionale (per tacere della limitata percentuale di giovani che accedono e soprattutto riescono a completare i percorsi di istruzione terziaria).
Cosa lamentano i seicento firmatari?
La scuola non fornisce una padronanza della lingua nazionale, o meglio la definizione formale di questa, e non abilita all’uso di linguaggi specialistici, ecc. ecc. Denuncia grave che non tiene conto della sfida insita nella scelta di insegnare a scrivere a tutti in presenza, non solo di processi di plurilinguismo diffuso, ma soprattutto della persistenza dei tanti dialetti e di parlate locali e, oggi, di nuove pervasive forme di acculturazione di massa, che spostano sempre più avanti gli obiettivi che si pone una educazione linguistica democratica (Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo. 2012).
E qui si arriva al secondo aspetto: i nostri seicento danno l’impressione di sottovalutare la complessità del problema, lo riducono al fatto che i docenti sono lassisti, incapaci di applicare semplici ricette fondate su quel buon senso, di cui pensano fosse ricca la buona scuola del passato(quale?); ricette che, francamente, non sembrano utili fonti di ispirazione di fronte alla situazione di oggi, perché si riducono a vagheggiare, come risultati positivi e auspicabili, quelli di una scuola severamente seria, selettiva e rigidissima nell’insegnamento della lingua italiana nel primo ciclo (?).
Per fortuna tuttavia qualcuno si è reso conto , anche in Italia, che otto anni di scuola per tutti non bastano, e che bisogna continuamente suscitare, sostenere e rinforzare competenze arricchendole di suggestioni e contenuti , senza bloccare forme spontanee di espressione che, prima di essere sanzionate e represse, come scandalosi errori , potrebbero essere spunti per interessanti percorsi di riflessione e di presa di coscienza comune del valore della comunicazione efficace. Sembra quasi impossibile pensare che questa sapiente accademia ignori che la competenza linguistica va coltivata e arricchita sempre perché la lingua é un soggetto vivo, che vive delle esperienze di chi la parla e la scrive.
Nel lontano 1975, lontano da noi oggi, ma vicinissimo alle prime riflessioni sulle esperienze di una scuola aperta a tutti i ragazzi, dopo il percorso elementare, le 10 tesi per l’educazione linguistica della scuola, definite da Giscel, mettevano bene in luce analisi, problemi e difficoltà, e disegnavano proposte di intervento didattico ( ancora troppo spesso trascurate nella pratica).
E qui veniamo al terzo aspetto: nella nostra scuola, ma anche nella nostra università (e questo i seicento non lo dicono) si scrive pochissimo, e quel poco che si scrive non viene in genere puntualmente corretto, analizzato e discusso.
Se si guardano i processi nella loro realtà, allora la questione appare complessa, e molto più interessante, perché coinvolge tutti coloro che nella scuola lavorano dalla scuola dell’infanzia fino all’Università, dove ,per molti studenti, la scrittura della tesi di laurea, è l’unico impegno di produzione di un testo. La continua riflessione sulla dialettica scrivere, parlare, ascoltare, pensare, comunicare, capire e farsi capire, è la funzione primaria della istruzione a tutti i livelli, stupisce la semplificazione suggerita dai seicento, che pensano che qualcuno debba fare il lavoro sporco, lavoro di puro addestramento all’uso di espressioni grammaticalmente corrette ( per dire cosa?), perché poi arriverà l’accademia e riempirà le frasi di contenuti alti e nobili. Che questa sia una pericolosa illusione era già ben evidente nelle tesi del 1975, che ponevano con chiarezza la necessità di un intervento di formazione nuova del personale ”La nuova educazione linguistica non è davvero facilona o pigra. [……] Non c’è dubbio che seguire i principi dell’educazione linguistica democratica comporta un salto di qualità e quantità in fatto di conoscenze sul linguaggio e sull’educazione. In una prospettiva futura e ottimale che preveda la formazione di insegnanti attraverso un curriculum universitario e postuniversitario adeguato alle esigenze di una società democratica, nel bagaglio dei futuri docenti dovranno entrare competenze finora considerate riservate agli specialisti e staccate l’una dall’altra.”
Allora forse si tratta qui davvero di denunciare il fatto che, per conformismo, comodità, eccesso di prudenza, pigrizia culturale e politica, troppo spesso la scuola va avanti per aggiunte successive, che invece di scardinare vecchie, obsolete e nocive prassi, affastellano obiettivi, compiti, progetti e quant’altro, mentre anche l’Università si accomoda in questo andazzo, salvo poi pensare che sia sempre colpa di un altro. Perché non si formulano le giuste denunce?
Quanti sono i docenti di scuola che nel percorso universitario, preparatorio all’insegnamento, vengono impegnati in corsi di linguistica, di didattica della lingua / delle lingue, quante sono le facoltà (tutte, nessuna esclusa) che attivano, per gli studenti universitari, corsi di scrittura, di preparazione alla produzione di testi scientifici, di comunicazioni, di rapporti ecc.? Ed infine perché non si dice chiaramente che un conto è insegnare letteratura italiana e altro compito è impegnare tutta l’istruzione all’uso consapevole della lingua/ delle lingue come strumenti essenziali della comunicazione sociale?
Vittoria Gallina