Giovani e precariato esistenziale
Ricordo bene gli anni nei quali a Milano frequentavo l’università in Medicina e ricordo pure come in quei lontani anni ’50, pian pianino affiorassero le prime difficoltà dovute alla carenza delle strutture e al loro utilizzo per noi studenti. Arrivai alla laurea e alla mia specializzazione entro quel decennio e nel ’61 cominciai a lavorare (avevo lavorato pure prima, all’università, ma senza compenso). La situazione universitaria intanto peggiorava arrivando a quel break point del ’68 che tutti noi italiani conosciamo e ricordiamo.
La famiglia via via s’era avviata a un cambiamento che negli anni a seguire portava a un’emancipazione sempre più chiara della donna proiettata all’esterno delle mura domestiche per attendere anche a un lavoro esterno retribuito.
I giovani nel frattempo divennero le vittime più trascurate. Sorse così in tutta la sua evidenza un malessere che li spinse verso l’ambiente extra famigliare, col desiderio di far gruppo fra di loro per un futuro garantito dai valori della pace. Ma non fu così. Negli anni ’70, infatti, esplose il terrorismo.
Ancora oggi molti giovani risentono di carenze famigliari e di disagi nell’ambito scolastico, subentra in loro una sorta di precariato esistenziale che non promette nulla di buono.
L’asse portante del complesso famiglia-figli-scuola, che in passato aveva rappresentato un quid unum come complesso sperimentato di base e quindi garanzia di un futuro più sicuro, nel comune assetto oggi oscilla ed è attraversato da insidiose rime di frattura che disorientano per primi i giovani e quindi l’intero nostro consorzio sociale.
Detto fenomeno tuttora si trascina per trovare un rimedio salutare a questa situazione, divenuta ormai critica sia sul piano umano che su quello della nostra società (vedi ad esempio la carenza di centri di assistenza temporanea di bimbi le cui madri lavorano all’esterno dell’ambito famigliare; vedi la programmazione dell’inserimento dei giovani man mano licenziati dalle scuole, in base alle esigenze avanzate, nel mondo del lavoro).
Colpe? Ce ne sono. Non si può favorire l’emancipazione della donna senza nel contempo assicurare misure che evitino scompensi per i figli. Non si può creare un rapporto di vicinanza umana fra insegnante e giovane senza vedere assicurato fra loro il dovuto rispetto basato sull’educazione e l’osservanza di regole che ne garantiscano una sana convivenza.
L’eccessiva dimestichezza come l’eccessiva severità nei rapporti fra insegnante e studente, nuocciono; questo lo sappiamo benissimo, ma chissà perché ce lo dimentichiamo sovente. La libertà di ognuno finisce dove comincia quella del nostro prossimo, ed è anche questa una massima ben nota che non rammentiamo abbastanza.
In una famiglia normale i giovani sono aiutati da rapporti basati sui valori affettivi, cosa che avviene molto meno al di fuori di essa. Ciò può spiegare il perché al di fuori dell’ambito famigliare i giovani finiscano in genere e alla lunga per restare scompensati negli affetti, cercando compensazioni altrove e in altro modo, e a volte sbagliando con tristi conseguenze.
I giovani fanno parte del nostro futuro e oggi forse ci si rende conto che hanno bisogno di maggiore attenzione nel nostro contesto sociale. In questi ultimi 50 anni hanno molto sofferto e dal punto di vista umano e per un difficile inserimento nella società. La famiglia e la scuola sono sempre determinanti per una formazione che sia all’altezza del loro futuro sia in senso associativo che in senso etico. Le insidie dello svago scriteriato e del facile guadagno sono purtroppo la panacea dei disorientati che cercheranno altrove ciò che non hanno trovato altrimenti e cioè nell’ambiente famigliare e nell’ambiente scolastico. Alla loro potenziale esuberanza non opponiamo la nostra pigra partecipazione, non pensiamo di accontentarli come faremmo con un cagnolino a noi caro, con un buffetto e qualche parola. Impegniamoci di più col cuore e con la mente.
Piero Faraone