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Il manierismo

Pubblicato il: 08/06/2016 17:52:13 -


Saggio di Lidia Maria Giannini, studentessa
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Se Umanesimo prima, Rinascimento poi, erano stati frutto di un generale ottimismo volto alla rivalutazione dell’uomo, delle sue facoltà ed infinite possibilità derivanti dalla consapevolezza di essere eredi di una somma altissima di valori, di canoni “ideali” di bellezza estetica e letteraria, derivanti direttamente dai grandi modelli classici del passato, con l’apprestarsi della così detta età della Controriforma (1545-1690 circa) la regola subentrerà al gusto dell’imitazione, l’incertezza alla certezza. Come la conclusione del Concilio di Trento segna un netto “ritorno all’ordine”, così anche in campo artistico e letterario gli intellettuali saranno influenzati da precetti avvertiti come sempre più restrittivi e vincolanti in una realtà che pare, ormai, andare alla deriva: l’uomo non è più al centro del mondo, il mondo non è più al centro dell’universo, le scoperte scientifiche hanno messo in crisi la concezione di natura stessa, mutevole, soggetta anch’essa alle inconoscibili leggi del divenire. Alla “rinascita” si contrappone, dunque, la perdita improvvisa di una nozione serena, chiara, del reale, a favore di un complicarsi dell’esperienza umana; a classicismo si contrappone il gusto per la variazione, la combinazione, la rielaborazione in chiave deformante dei modelli precedenti, con una propensione per la bizzarria e l’artificio formale che preludono all’esperienza barocca.

È questa l’età della “maniera”, termine usato a lungo in senso spregiativo ad indicare quell’epoca di transizione collocata tra il 1545 e il 1610 circa, fatta d’artisti che, rifacendosi unicamente ai grandi maestri del classicismo cinquecentesco (Leonardo, Michelangelo, Raffaello), hanno dato vita a produzioni artificiose, prive di gusto o d’inventiva. Bisognerà attendere il ‘900 per assistere a una rivalutazione del manierismo, una rivalutazione che ne metterà in evidenza gli aspetti prettamente anticlassici di deformazione ed antinaturalismo elevati a forma di ribellione di artisti ed intellettuali in nome di libertà di pensiero e d’espressione, soffocati ormai del tutto dal processo di “normalizzazione” propugnato dalla Chiesa di Roma. La crisi politica, economica, sociale, nonché morale, vissuta dagli uomini del tempo, è così avvertita appieno nei sensibili animi di artisti e letterati e, inevitabilmente, riversata nelle loro opere, veri capolavori di sincera risposta a nuove, superiori, esigenze. In pittura, scultura, persino architettura, le composizioni divengono assai complesse, si citano regole affinché vengano prontamente infrante, effetti stupefacenti ammaliano lo spettatore perché, come dirà Marino, “è del poeta il fin la meraviglia”, e che cos’è l’opera d’arte se non poesia fatta d’immagini?

Nulla gli uomini sanno dello spazio che li circonda né di loro stessi: in pittura la prospettiva cessa di essere l’elemento unificante della rappresentazione, le proporzioni sono alterate, sino ad essere completamente deformate. “(…)i corpi più snelli, le gambe più lunghe e le mani più sottili, il più delicato viso di donna e il collo più squisitamente modellato, e l’accostamento di motivi più irrazionali che si possa immaginare, le proporzioni più inconciliabili e la più incoerente figurazione dello spazio. Par che nessun elemento del quadro si (…) comporti secondo le leggi naturali”: emblematico il giudizio critico dell’Hauser nell’analizzare la celebre “Madonna dal collo lungo”(1534-40) di Francesco Mazzola, detto il Parmigianino. Le forme allungate ma non troppo, da sempre tradizionale simbolo di grazia e perfetta bellezza, sono qui esasperate al massimo; la similitudine tra il collo della Vergine e la colonna, emblema dell’Immacolata Concezione, appartenente alla simbologia medievale – “collum tuum ut columna”- torna con grande sperimentalismo, proponendo sullo sfondo monumentali colonne giudicate alquanto “strane” dall’Hauster, il quale osserva perplesso: “Che razza di colonne sono, poi, quelle che se ne stanno lì senza capitello, affatto inutili, veramente paragonabili a fumaioli di fabbrica?”. La scena si svolge all’aperto o al chiuso, in un atrio? Sembra di essere catapultati in un’impensabile palcoscenico, un sipario che si apre su figure ermetiche, simboli enigmatici: il magro, minuscolo, profeta con in mano un papiro esemplifica le assurde, impensabili, proporzioni proposte dall’arte manierista; la folla di giovinetti e fanciulle accalcati, dagli sguardi più persi che attenti, bene esprimono quell’ansia di infinito, quel policentrismo e poliprospettivismo dati dal sapiente ricorso a prospettive inquiete, distorte, inusuali, che giungeranno all’apice dell’evoluzione con l’arte barocca. Secondo le leggi della fisica il bimbo starebbe per cadere dalle gambe della madre; non si comprende se la donna stia guardando il figlio o se sia assorta nei suoi pensieri: un linguaggio colto e intellettuale, elegante e virtuosistico, è quello barocco, al limite dell’artificio, in cui la forma prevale nettamente sul contenuto rappresentato. Il bimbo, dall’irreale colore livido, è abbandonato, inerte, tra le braccia della madre, ed anch’essa pare allentare ogni tensione dalle sue membra, abbandonando il proprio corpo a una morbida forma sinuosa.

Difatti quale forma migliore per rappresentare la molteplicità e mutevolezza del reale se non quella aperta, inconclusa? Il ricorso alla così detta “linea serpentinata”, elaborata sulla base dei grandi modelli michelangioleschi, diverrà così vero e proprio tratto distintivo degli artisti (pittori e scultori) manieristi: su rigorismo e stabilità d’ascendenza classica prevarrà, tanto in pittura quanto in scultura, l’instabilità, un dinamismo condotto agli estremi, paragonato “alle tortuosità d’una serpe viva quando cammina, che è la propria forma de la fiamma del foco che ondeggia (…) La forma della lettera S”. Questo il giudizio dato dal Lomazzo nel 1584 osservando il Mercurio bronzeo del Giambologna, statuetta divenuta emblema della scultura manierista. Trasferendo con sorprendente maestria la forma sinuosa, serpentinata, nel tridimensionale e riflettendo sulla libertà di movimento della scultura nello spazio, il Giambologna elabora differenti versioni della figura mitologica di Mercurio, tra le quali vi è quel capolavoro del 1580 che tanto affascinò il Lomazzo: Mercurio, nell’atto di spiccare il volo, pare quasi cimentarsi in un elegante passo di danza; il corpo longilineo sembra espandersi in ogni direzione; la muscolatura è presente, ma non esagerata né massiccia come in molte opere di scultori contemporanei, sterili poiché fondate esclusivamente sulla pedissequa, esasperata, imitazione michelangiolesca.

Esiste, dunque, un “cattivo manierismo”, “vuoto” ed eccessivamente astratto, e la critica ad esso appare più che fondata, ma il vero manierismo è ben altro: è rappresentare le figure più impensabili, dalle posizioni più innaturali possibili, con una carica di disinvoltura tale da farle apparire estremamente naturali, anzi eleganti e raffinatissime, e per nulla forzate. In questo consiste la “sprezzatura” manierista, quel compiacimento di artisti che, superate arditissime difficoltà compositive, ostentano senza riserba alcuna la loro effettiva bravura e talento cimentandosi in un virtuosismo senza eguali: estremamente naturale, anzi, intrisa di una grazia indescrivibile, riesce ad apparire persino una Madonna dal collo lungo, una volta rappresentata con estrema disinvoltura; naturale diviene il giovane Mercurio che, sebbene si innalzi verso il cielo con un’improbabile slancio di arti, non mostra alcuno sforzo, fatica alcuna né emozione, bensì estrema facilità e grazia. Anche in scultura, dunque, i corpi si allungano, si animano e deformano, a rivelare la drammaticità avvertita nella materia stessa, una materia sempre più sfuggente e incomprensibile, non perdendo però mai di vista quell’armonia di fondo eredità della grande tradizione classica.

Questo è infatti il tratto distintivo che differenzia manierismo da barocco: l’anticlassicismo propugnato dal manierismo non può che nascere da una grande, profonda, consapevolezza di tutte quelle norme, regole, di tutti quei precetti tradizionali, ancora fortemente avvertiti e dai quali gli artisti (e gli uomini in generale), essendone profondamente influenzati, non possono fare a meno di prescindere. I manieristi, cioè, pur tentando di apportare innovazioni a canoni prestabiliti, non riescono a distaccarsene: essi si stanno avviando ad un “inconsapevole” percorso di riscrittura di valori e gusti estetici; quando subentrerà la consapevolezza sarà barocco e gli artisti ormai, liberi da ogni retaggio del passato, fonderanno loro stessi nuovi canoni e nuovi concetti. Ecco che molti, nel definire la “migliore arte manierista”, l’hanno identificata quale “arte classicistica”, ma non più “classica”, e ciò è ben visibile sì nelle opere artistiche e scultoree ma, ancor più nell’immediato, in architettura.

È un palazzo costruito su modello della villa suburbana classica, dunque costituito di sale di sola rappresentanza e fortemente sviluppato nella dimensione orizzontale, progettato su pianta quadrata e con un ampio cortile interno, secondo il tradizionale connubio architettura-natura; presenta un massiccio impiego del bugnato rustico, rivestimento costituito da pietre rozzamente sbozzate tipico dell’epoca romana; le facciate sono scandite da elementi tratti direttamente dal repertorio antico, con lesene sostenenti la canonica trabeazione architrave-fregio-cornice e metope riccamente decorate: “Palazzo Te”, sito nei pressi di Mantova e realizzato tra il 1525 ed il 1535 circa da Giulio Romano, mostra perfettamente quanto l’ostentato rigore classico manierista sia solo apparente, e quanto l’apparenza nasconda, in realtà, numerose licenze e forzature. Grandi asimmetrie caratterizzano le facciate, grandi stravaganze caratterizzano l’impostazione architettonica intera, e questo non solo affinché, come osserva Serlio, le finestre siano “accompagnate e distribuite alle comodità delle stanze di dentro” – dunque per fini pratici – ma soprattutto per la volontà di suscitare stupore, meraviglia, espressione di quel gusto della variazione, quel senso di mutevolezza del reale, tanto avvertito dagli artisti manieristi e proposto dissimulando difficoltà e superandole con “sprezzo”. La facciata ovest è l’unica nobilitata dall’impiego del classico ingresso a fornice unico, il quale immette in un vestibolo in cui, seguendo la poetica del non-finito, quattro colonne dal fusto sbozzato presentano capitelli e plinti perfettamente ultimati; nella facciata nord i tre archi centrali sono sormontati da un pesante bugnato che rompe l’unitarietà della cornice, vi è grande asimmetria tra le campate di destra e di sinistra, lesene binate con nicchia spezzano il rigoroso ritmo finestra- lesena, quest’ultimo un elemento che ritorna, ripreso con maggior leggerezza, nella facciata nord: il tutto appare come una fresca parodia delle tradizionali norme classiche, ripresa con ancor più forza nel cortile interno. È un'”estetica della rovina”, quella manierista, in cui ogni elemento deve sembrare frutto della casualità e, nel cortile di “Palazzo Te”, lo slittamento dei triglifi nella trabeazione, le chiavi troppo corte per giungere al profilo delle finestre su cui poggiano timpani spezzati ad arte, ne sono immediati, perfetti esempi. Lo stesso principio dell’imitazione tanto caro alla tradizione è sapientemente parodiato: il bugnato adottato per la realizzazione del Te non è infatti di pietra, bensì di “pietra cotta”, ovvero di argilla resa, tramite un particolare processo di lavorazione, simile alla pietra, una pietra “dissimulata”.

L’arte del dissimulare, del modificare e combinare, unite ad una carica innovativa senza eguali, sviluppate, a livello figurativo, a partire dall’intraprendenza e dalla sperimentazione di artisti, scultori, architetti espressione del più genuino manierismo, troveranno libero sfogo e massima espressione nell’esperienza barocca. Il manierismo rappresenta, dunque, un fondamentale momento nell’evoluzione del pensiero umano, un momento in cui gli uomini per la prima volta, presa gradualmente consapevolezza della loro finitezza, dell’inutilità dei troppi “miti” della tradizione, metteranno in discussione il passato tentando un primo, timido, sguardo al futuro.

Lidia Maria Giannini

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