L'”infelice” alla conquista del mondo
Saggio di Lidia Maria Giannini, studentessa.
“Imperialismo” è un termine di origine relativamente recente: entra infatti in uso nel corso dell’800 per indicare quel fenomeno di assoggettamento, diretto o indiretto, di popoli e territori, che nasce nell’Inghilterra vittoriana per diffondersi poi, come vero e proprio atteggiamento mentale, alla totalità delle potenze europee e non solo. Ma quali ne sono le motivazioni? E poi, può essere veramente ritenuto un fenomeno relativo alla sola età contemporanea? Certo è che il desiderio d’espansione e la volontà di imporre un proprio personale sistema di valori sull’altro è un aspetto caratteristico dell’uomo da sempre, poiché insito nella sua stessa natura umana. A lungo ci si è interrogarti, tuttavia, su come dare una spiegazione razionale a un “desiderio imperialistico” che spiegazione propriamente e unilateralmente razionale non può avere…
Il primo ad affrontare la questione sarà, intorno agli anni venti del ‘900, l’inglese Hobson. Nell’opera “Imperialismo. Uno studio”, partendo da un’analisi approfondita della realtà a lui familiare, la Gran Bretagna, Hobson si mostra convinto delle radici economiche dell’imperialismo, ritenendo che sia “necessità vitale per una nazione che possieda una forza di produzione considerevole e in costante aumento”. Inutile, secondo Hobson, additare le ragioni del fenomeno al puro “spirito d’avventura” di individui intraprendenti o a una nobile “missione di civiltà”: “l’imperialismo non va visto come una scelta ma come una necessità”, e tale diventa nel momento in cui le potenze europee entrano in rivalità e competizione le une con le altre e nuove potenze emergono a mettere a repentaglio i mercati già esistenti. È l’inizio un processo d’espansione territoriale e commerciale “a catena” del quale le nazioni non si potranno più liberare, perché “per quanto rischioso questo processo di espansione possa essere, è indispensabile alla continuità dell’esistenza e del progresso del nostro paese: se noi lo abbandoniamo – conclude Hobson – dovremo accontentarci di cedere lo sviluppo del mondo ad altre nazioni”. L’imperialismo, sorto “come prima e principale difesa” degli interessi economici di uno stato, andrebbe così, poi, ad agevolare gli interessi dell’intera comunità e a trovare persino appoggio intellettuale e legittimazione ideologica.
Il rivoluzionario Lenin approfondirà la riflessione Hobsoniana, ritenendo che l’imperialismo rappresenti la “fase suprema del capitalismo”. Partendo dal presupposto che alla base del capitalismo vi sono il libero scambio e la libera concorrenza, il capitalismo diviene secondo Lenin “imperialismo capitalistico” nel momento il cui la libera concorrenza degenera nel suo opposto, il monopolio. L’imperialismo è assimilato, dunque, allo “stadio monopolistico del capitalismo”: il capitale finanziario è fornito da “un piccolo gruppo di una decina di banche che detengono i miliardi” unito al capitale dei “trust”, le unioni monopolistiche industriali, e il carattere imperialista del fenomeno deriva dalla definitiva ripartizione di aree del globo sulle quali le varie potenze capitalistiche rivendicano un possesso monopolistico.
Parlare di mere cause economiche alla base dell’imperialismo risulta tuttavia inesatto e riduttivo: basterà, infatti, l’intervento di Fieldhouse, storico statunitense vissuto a cavallo delle due guerre mondiali, a confutare tanto la teoria di Hobson quanto quella di Lenin. Egli rileverà come “le zone del Pacifico e dell’Africa per le quali gli stati europei erano entrati in competizione, erano di importanza economica marginale” e come “i luoghi da occupare non avevano attirato fino a quel momento che un capitale molto limitato e non lo attireranno in seguito”. L’imperialismo non è, secondo Fieldhouse, un fenomeno di natura economica, bensì politica: “la corsa alle colonie fu il prodotto della diplomazia”, il risultato naturale di un “febbrile nazionalismo”. “Il processo (…) non poteva essere arrestato; poiché, in condizioni di tensione politica, il timore di essere lasciati fuori dalla spartizione del globo passava sopra qualsiasi altra considerazione”.
In nome del prestigio politico gli stati sarebbero stati così disposti ad accantonare i principi di “sana moralità” per abbracciare “un credo basato su concetti assurdi, irrazionali, come la superiorità della razza e il prestigio della nazione”. È questo un “ritorno alle vecchie monarchie autocratiche d’ancien régime”, come avrebbe voluto l’economista austriaco Schumpeter, o “il primo dei miti irrazionali che hanno dominato la metà del ventesimo secolo”? Fieldhouse lascia aperta la questione. Di fatto non è né l’uno né l’altro, è bensì un vero e proprio “ritorno alle origini”…
L’imperialismo non è, infatti, neppure da ritenere, come sostenuto da Fieldhouse, fenomeno puramente politico. È pur vero che tanto il fattore economico quanto quello politico concorrono allo sviluppo e alle degenerazioni dell’imperialismo, ma non ne costituiscono l’essenza. Riflettiamo ora un attimo su quel concetto di “irrazionale” finalmente introdotto da Fieldhouse: l’imperialismo è un fenomeno che porta, secondo Fieldhouse, a conseguenze irrazionali. Ma se fosse esso stesso di natura irrazionale, ovvero non controllabile da parte della ragione umana?
L’uomo è per natura portato ad essere insoddisfatto: egli solo ha la capacità di interrogarsi problematicamente su di sé, sul mondo circostante, su quale rapporto debba esserci tra sé e il mondo e quale il motivo della sua esistenza, senza trovare tuttavia spesso risposte adeguate. Per quanto l’uomo cerchi appagamento nel mondo materiale egli sentirà sempre la mancanza di qualcosa: andrà così alla ricerca frenetica e senza sosta di una meta ignota, per poi comprendere come aspiri, di fatto, a qualcosa di materialmente irraggiungibile. Quel che l’uomo avverte dentro di sé, sin dall’origine dei tempi, è un senso di scissione profonda, d’aspirazione all’assoluto e all’infinito. È questa una scissione da intendere in maniera religiosa, come “nostalgia di Dio” o, nella maniera laica, come pura volontà dell’uomo di migliorare se stesso ed evolversi all’infinito, di aspirare a un mondo “ideale” impossibile da realizzare del tutto nel mondo reale? Per ora non entreremo nella questione, alquanto spinosa, e ci limiteremo a rilevarne l’effetto: l’insoddisfazione. Quella umana è, per riprendere la terminologia Hegeliana, una “coscienza infelice” e tale resterà finché non riuscirà a comprendere di essere parte essenziale di un disegno più grande, che tutto comprende e in cui tutto trova senso.
Lidia Maria Giannini