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Quando la Guerra Fredda incendiò Hollywood

Pubblicato il: 16/03/2016 08:00:15 -


Storia e Storia del Cinema s'intrecciano in L'ultima parola. La vera storia di Dalton Trumbo (2015). Film attualissimo, dedicato al diritto alla libertà di pensiero, di parola ed espressione artistica.
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Nel secondo dopoguerra, in piena Guerra Fredda, si diffonde anche a Hollywood (non solo in Europa occidentale) l’esagerata preoccupazione, presto divenuta paranoia, di un’imminente invasione sovietica degli Stati Uniti o, comunque, di una diffusione capillare di pericolosi comunisti, soprattutto tra intellettuali e artisti, pronti a sovvertire la “democratica” e “tranquilla” vita americana.

Qualcuno stila una lista di “pericolosi” cineasti, “i dieci di Hollywood”, le cui simpatia di sinistra sono ritenute pericolosa per il Paese e che, quindi, devono essere allontanati dal set. Vengono anche ascoltati pubblicamente da una Commissione creata ad hoc dal senatore Mc Carty, il Comitato per le Attività Antiamericane (da lì a poco si coniò il termine “maccartismo” e l’espressione “caccia alle streghe”, a significare la pesante repressione posta in atto). Tra “i dieci”, l’accusato più celebre, emarginato e incarcerato per 11 mesi nel 1950, , è l’eccellente sceneggiatore Dalton Trumbo.

Il racconto filmico di Jay Roach (Candidato a sorpresa; Game Change), sceneggiato da John McNamara (Prime Suspect; Common Law; Aquarius), seppur di taglio classico, poiché sceglie il nastro della ricostruzione cronologica (brevi e secche didascalie sulle date e i luoghi, in modo che lo spettatore riviva il periodo 1947-1975, anno dello scioglimento del Comitato), crea una suspense di grande impatto narrativo e spettacolare. L’assurdità kafkiana degli interrogatori, l’omertà e il tradimento di amici e colleghi (il noto attore Edward G. Robinson), l’ostilità di John Wayne, l’irriconoscenza del regista Sam Wood (per cui Trumbo aveva scritto la sceneggiatura di Kitty Foyle, History of a Woman, 1940, una commedia interpretata da Gingers Rogers e Dennis Morgan, candidata all’Oscar), turbano lo spettatore di oggi costringendolo a ripensare la vita privata e politica di alcuni “miti” del cinema hollywoodiano.

John McNamara tesse un elaborato ordito di sceneggiatura che avrebbe suscitato l’ammirazione dello stesso Trumbo, alternando diverse piste psicologiche: la tensione del protagonista, improvvisamente invisibile negli studios e/o attaccato sarcasticamente dai colleghi, che, con ironia, risponde alla feroce stupidità degli interrogatori della Commissione; l’ostilità subita in prigione; l’improvvisa crisi familiare dopo l’uscita dal carcere; lo stress del lavoro di sceneggiatore costretto a scrivere e/o correggere a ritmi serrati testi per B movie (e senza poter firmare); il dramma dei pochi colleghi-amici, anch’essi colpiti e isolati, per il cui destino egli si sente responsabile; il ritorno del sorriso davanti alla rassicurante figura del giovane Kirk Douglas che gli commissiona la sceneggiatura di Spartacus.

L’ultima parola è tassello necessario per studiare un periodo storico poco conosciuto del secondo Novecento, in cui politica e libertà di parola e di pensiero (artistico), Storia e Storia del cinema, torbidamente s’intrecciano nel Paese più democratico dell’Ovest.

Un film che ci ricorda come l'”arte di Stato” non fosse solo una prerogativa dei regimi dell’Est. Bryan Cranston ci dà un Trumbo credibile e ricco si sfaccettature, all’altezza di un Paul Newman. La ricostruzione degli ambienti (scenografia viscontiana) e della mentalità del tempo è ineccepibile (si pensi ai vicini, autori di violenti dispetti a danno della famiglia). Sconvolgente la “visita” delle parti intime cui Dalton deve sottoporsi, da parte di un semplice poliziotto, al suo arrivo in prigione: ha la stessa violenza visiva di alcune scene di E Johnny prese il fucile.

Giudizio: da non perdere. (Utile per la preparazione agli esami di Stato).

Eusebio Ciccotti

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