Mo non guardate a me
È un laboratorio di pasticciere. Chi tiene il corso ripete: “Mo’ non guardate a me”. Eppure fino a quel momento voleva che i ragazzi guardassero; eppure in cucina si è sempre detto che la cosa più importante sia “guardare”, “rubare il mestiere cogli occhi”. Ma che cosa significavano allora quelle parole, “Mo non guardate a me”, rivolte da chi insegna a chi apprende? Perché non si deve guardare “a lui”?
Per provare a capire è forse utile ricorrere a Sennett, L’uomo artigiano: “Fare un buon lavoro significa avere curiosità per ciò che è ambiguo, andarci a fondo e imparare dall’ambiguità […] il mestiere si muove in una zona di confine tra individuazione e risoluzione dei problemi…”.
In effetti un bravo esperto dell’apprendimento ? a scuola o fuori ? se intende trasmettere conoscenze, deve spingere chi apprende a imparare a risolvere problemi, appunto. Per fare ciò egli prima mostra, poi cela. Perché non deve mettere troppo in risalto la filiera corretta e pulita delle sue operazioni. Per poter assolvere a questa funzione decisiva dell’insegnamento ? in un laboratorio di pasticciere come ovunque ? deve riandare col pensiero al suo stesso apprendimento. E sceneggiare i punti critici, gli errori e le correzioni, mettendosi nei panni delle probabili situazioni in cui un qualunque apprendista può trovarsi. Deve, insomma, mostrare una sequenza non lineare di operazioni ma il procedere incerto, “by trial and error”. È questo che favorisce, infatti, “di più e meglio” l’acquisizione di competenze in chi apprende, in chi “ruba con gli occhi”. Perché costringe al dubbio; e, dunque, a pensare a strategie e a soluzioni. Queste soluzioni non è affatto detto che siano uguali a quelle acquisite dalla tradizione. Possono esserlo, possono diventarlo. Ma non subito. Ognuno deve poter portare il sapere a se stesso. Anche se ? all’inizio ? ciò comporta il rischio dell’errore, dell’imperfezione o della perdita di tempo. La competenza, infatti, si acquista in via procedurale ed è esattamente la capacità di fare propria una conoscenza, di riportarla a sé, a come personalmente si è, si opera e si pensa.
Dunque in questo episodio apparentemente piccolo vi è, perciò, una grande questione teorica. Chi insegna è chiamato a mettere in evidenza ? con una serie di comandi o di giochi, di piste false e di dubbi ? il suo percorso di apprendimento e di prove e errori e non soltanto le soluzioni “pulite” che egli ha a suo tempo faticosamente trovato o che sono diventate “tradizione” o “standard”. Chi nell’insegnare è troppo affezionato alla linearità o al “si fa così” rischia di tradire sia la funzione di guida che il metodo sperimentale.
“Mo non guardate a me”, allora, è un invito a non osservare le procedure finali di un’operazione, perché sarebbe sbagliato pedagogicamente. E, inoltre ? va notato ? molto spesso la procedura veloce e corretta nasconde dei trucchi: in qualunque laboratorio, anche quelli scientifici o musicali o teatrali o letterari, c’è un sistema di arrangiamento, una soluzione sporca per giungere al risultato. E i trucchi sono locali, contestuali, non sempre generalizzabili.
Ma torniamo al “guardare”. Che differenza c’è tra un laboratorio di pasticciere e una ricetta? La “parola del maestro”, in un laboratorio, è sempre una parola teatrale. È accompagnata da una gestualità molto articolata, un mimare le operazioni. La gestualità non è una ridondanza, non serve solo ad agganciare chi deve imparare: trasmette informazioni, evoca vissuti e scenari cognitivi. È una specie di ritorno alle origini del linguaggio, quando probabilmente i suoni accompagnavano i gesti, prima di rendersene autonomi e simbolici.
Perciò l’esperto di apprendimento prima mostra, ma poi invita a rallentare, a riflettere, quasi a non guardare più… Perché ognuno possa andare a una scena del proprio teatro interiore, a rivisitare le proprie operazioni e accoglierne le eventuali criticità. Quando ciò accade, la lezione si incrocia sempre coi saperi informali di chi impara, che ascolta e interloquisce, sostiene le sue ricette. E, magari, chiede come mai mentre preparava un dolce o faceva un esperimento o suonava la tromba o guardava il traduttore in Internet sia successo questo e quell’altro. C’è una democrazia tra interlocutori, asimmetrici senz’altro, ma mai disconosciuti.
Tutto ciò entra in ogni lezione. E va finalmente ripresa, in generale, una riflessione sul carattere artigianale ? in senso alto ? della lezione e della conduzione del laboratorio nei processi di apprendimento.
Per approfondire:
• Richard Sennett, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli 2008
Salvatore Pirozzi, Marco Rossi-Doria