Insegnante di sostegno: diritto o dovere?
Questo articolo affronta lo stesso argomento di quello pubblicato contemporaneamente a mia firma. Il mio stesso contributo, pubblicato recentemente online, è frutto di una lunga corrispondenza con la signora Claudia Trombetta, mamma di Irene e autrice delle righe che leggerete di seguito.
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Sono la mamma di una bimba con Sindrome di Down, Irene.
Irene ha quasi due anni e mezzo, è una bimba gioiosa e furbetta, divertente e riflessiva. Ora cammina in modo deciso alla scoperta del mondo ed inizia a pronunciare le prime parole, spinta da un forte desiderio di farsi capire. A noi piace moltissimo guardarla nelle sue esplorazioni, nei suoi sorrisi, nel suo modo di comunicare, anche nella sua goffaggine nel camminare!
Da settembre 2010 frequenta il nido comunale, in un gruppo di pari età, dove si è inserita con facilità e partecipa felice alla vita “sociale”, anche grazie all’intelligenza ed alla disponibilità della sua maestra Patrizia e del resto del personale, capaci di accogliere Irene con attenzione e leggerezza al tempo stesso. In questo contesto aperto ed accogliente, Irene riesce a regalare giorno dopo giorno, sia a noi cha alla maestra, la gioia e la sorpresa di continui apprendimenti.
Tutto sta quindi procedendo al meglio, ma… Una nuova “sfida” si affaccia alla nostra porta: l’imminente iscrizione alla Scuola d’Infanzia. La questione è così semplice e così complessa al tempo stesso: continuo a sorprendermi di quanto una cosa così semplice possa diventare così incredibilmente complicata!
Mi spiego. Da quando ho inziato ad attivarmi per l’iscrizione, mi sono scontrata con l’idea che il diritto all’inclusione scolastica coincide con il diritto all’insegnante di sostegno. Sento fastidioso questo abbinamento automatico: perché le due cose si sono così sovrapposte!? Non è questo che dice la legge sull’integrazione. Non è questo che dicono alcune circolari ministeriali. Non è questo che dicono molti esperti. E non è questo ciò che penso serva alla mia Irene!
La richiesta dell’insegnante di sostegno sembra ormai essere l’esito di un processo acritico ed automatico, una prassi ormai consolidata ma poco “pensata”: diritto all’inclusione uguale diagnosi funzionale uguale insegnante di sostegno. La scuola lo dà per scontato. I servizi lo danno per scontato. Le famiglie pure. L’ipotesi di non richiederlo sembra assurda: com’è pensabile rinunciare ad un diritto così importante?
Io invece sento il bisogno di fermare la corsa burocratica e pensarci un attimo: davvero l’insegnante di sostegno sarebbe un’opportunità per mia figlia in questo momento? Penso di no. I motivi sono tanti. Ne cito solo alcuni.
Primo, stiamo parlando della Scuola dell’Infanzia.
Poi ho un’idea radicata: le cosidette “professioni d’aiuto” vanno usate con attenzione e moderazione (e lo dico da psicologa): se da una parte offrono aiuto, dall’altra possono etichettare, trasmettere messaggi di deficit ed inadeguatezza, molto pericolosi in età evolutiva.
Un pò come l’utilissimo antibiotico: sappiamo bene che se ne abusiamo, l’inefficacia non tarderà a comparire. L’idea “più ne usi meglio è” (spesso diffusa negli interventi riabilitativi, terapeutici, di sostegno), può essere molto pericolosa.
Quindi mi chiedo: serve proprio a Irene l’insegnante di sostegno alla Scuola d’Infanzia ove la didattica ha un ruolo ancora limitato? O la sua presenza rischia di etichettarla già come inadeguata, incapace, deficitaria in un momento della sua vita in cui non è poi così vero nè necessario? Perchè devo già sottolineare le sue differenze come se fossero differenze negative, mancanti, problematiche tanto da necessitare un adulto tutto per lei per “normalizzarla” il più possibile? Ne trarrebbe giovamento la sua autostima? E la sua autonomia? L’avere un adulto “tutto per sè” non rischia di “infantilizzarla” più del dovuto e di ostacolare processi di autonomizzazione che potrebbero invece più facilmente svilupparsi se lei potesse essere trattata come tutti gli altri bimbi?
Spesso si sente dire che i bambini con disabilità sono innanzitutto bambini: posso capire che chi non ha avuto la fortuna di crescere per due anni e mezzo con una bimba come Irene possa fare più fatica a cogliere la veridicità di questa affermazione. Come mamma però sento profondamente che è così: innanzittutto una bambina, con bisogni, desideri e modi simili a qualsiasi bambino.
Che ci siano dei limiti, questo è innegabile. Non dobbiamo neanche negare, però, che spesso ipervalutiamo i limiti, perchè ciò che è diverso ci spaventa e ci mette a disagio. Sopravvalutiamo il limite per avere la sensazione che, definendolo, lo possiamo gestire meglio.
Forse allora può essere utile fermarsi un attimo, bloccare le prassi consolidate e gli automatismi interventistici.
Senza attese miracolistiche, con la consapevolezza che l’ inclusione scolastica sarà un obiettivo mai raggiunto completamente e che dobbiamo fare tutti insieme un passo dietro l’altro.
L’inizio, per me, per noi, per quello che può fare la nostra famiglia per contribuire a questo processo, è questo: dare fiducia alla nostra bimba, dare fiducia alle insegnanti che l’accoglieranno, alla scuola, a noi come famiglia. Puntare sulle potenzialità di tutti e sperimentare un percorso scolastico alla scuola materna ove siano presenti le insegnanti curriculari in prima linea, la mia Irene, la nostra famiglia, le associazioni, i professionisti che sapranno aiutarci e sostenerci.
Un modo per iniziare può essere, dunque, questo: sfidare i nostri pregiudizi e le nostre paure e vedere l’ingresso di Irene alla scuola materna come un’opportunità per tutti oltre che come un impegno ed una fatica in più. Iniziare concretamente, con questa scelta di rinunciare ad un diritto, quello all’insegnante di sostegno, che sembra essere diventato un dovere.
Claudia Trombetta
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Claudio Imprudente