Fare ancora rumore contro il patriarcato!
Nulla potrà cambiare davvero, se non impariamo a usare le parole giuste, in particolare quelle che definiscono il sistema discriminatorio nel quale viviamo.
Questo è il monito che ci ha lasciato Michela Murgia. “Stai zitta!” e le altre “frasi che non vogliamo più sentirci dire!” offrono lo spunto per dare voce al legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo[1].
Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora la più sovversiva: se non impariamo a usare le parole giuste, nulla potrà cambiare davvero e in modo radicale l’educazione femminile alla subordinazione e quella maschile imbevuta di proiezioni dominanti e possessive, fino ad arrivare alla violenza di genere quasi quotidiana.
Eliminare le disparità di genere nella vita sociale e nel mondo del lavoro è una rivoluzione possibile, anche se ancora piena di ostacoli. Carriere interrotte, deficit di servizi a supporto delle neomamme, discriminazioni salariali, barriere culturali da abbattere e insopportabile violenza di genere, per mano non di “mostri”, ma dei “figli sani del patriarcato”, come ha scritto Elena Cecchettin un anno fa, dopo la morte per la mano violenta di Filippo Turetta dell’amata sorella Giulia, che aveva l’unica colpa di essersi sottratta a un “amore tossico[2]”. Elena ha subito denunciato con fermezza la matrice patriarcale della violenza subìta dalla sorella.
Gino Cecchettin dichiara di avere imparato molto dalla dolorosa storia di vita, che come padre gli è toccata in sorte.
Ha compreso in primis, grazie alla figlia Elena, il vero significato della parola “patriarcato”, ripescata dalle nuove generazioni: non si tratta soltanto di una conduzione familiare in cui il padre prende le decisioni, ma di una forma primordiale di dominio violento della forza dell’uomo sulla donna, una dinamica di potere e controllo alimentata da stereotipi e aspettative di genere, esercitata da uomini su donne che sostengono di amare e che invece annientano, psicologicamente e fisicamente.
Troppo spesso l’ansia e il disagio profondo degenerano in violenza non solo verbale. “La violenza di genere” – scrive con lucidità Gino nel libro –“esplode quando certi uomini sentono messa in crisi la loro posizione predominante e minate le loro prerogative, il loro essere uomo, maschio”.
Fin dai primi tragici momenti Gino Cecchettin non ha avuto una reazione di vendetta, rabbia e rancore, ma si è mostrato capace di governare il dolore con una compostezza esemplare e di portarlo con grazia e gentilezza, quella “grazia tranquilla” che Giulia sapeva infondere in tutte le cose. Al contempo ha sempre cercato di essere “solido e deciso”, soprattutto per gli altri due figli, Davide e Elena.
Ha saputo dare al suo dolore una disciplina etica, come ha osservato Walter Veltroni, che lo aveva intervistato per il “Corriere della sera” il giorno dopo il funerale e che fin da subito aveva saputo cogliere con precisione il tratto di personalità che distingue questo padre nel dolore.
Ha dato una testimonianza civile esemplare di cittadinanza attiva, sia con gli incontri pubblici in tutta Italia, che con la scrittura del libro “Cara Giulia”[3] e la creazione di una Fondazione, alla quale sono stati destinati tutti i proventi netti dei diritti d’autore del libro, scritto a quattro mani con Marco Franzoso.
Per questo suo comportamento esemplare una minoranza rumorosa e violenta è arrivata a insultarlo e attaccarlo sui social o in qualche dibattito in TV, accusandolo di lucrare sulle spoglie della figlia: secondo questi crivellatori da tastiera sarebbe stata più tollerabile l’immagine dell’uomo devastato, adattativo, muto e prono di fronte al dolore. Non solo la sua piccola comunità di Vigonovo, invece, ma l’intero Paese l’ha stretto in un abbraccio ideale e continua a manifestare ogni giorno con calore la propria vicinanza a quest’uomo capace di dare voce in maniera costruttiva al dolore e a non fare mai esercizio violento della parola.
Nell’anniversario della morte della sua cara Giulia, Gino è entrato nell’Aula dei gruppi parlamentari della Camera e si è commosso per il minuto di rumore dedicato alla figlia. Ha presentato il progetto della Fondazione a sostegno delle vittime della violenza di genere.
“Per togliere la terra sotto i piedi all’uomo violento” la Fondazione si propone di organizzare programmi di formazione, seminari e iniziative educative volte a sensibilizzare la comunità sulla violenza di genere e promuovere la prevenzione nelle scuole, insegnando ai più giovani che l’amore non è controllo e sopruso e che bisogna saper riconoscere i segnali di pericolo.
In questa occasione così delicata e densa di significati, è intervenuto anche il Ministro dell’Istruzione e del Merito, affermando, tra l’altro che è una visione ideologica “quella che vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato”. Ancora una volta composta e misurata la reazione di Gino Cecchettin: “Diciamo che ci sono dei valori condivisi e altri sui quali dovremo confrontarci”.
Non aggiungiamo altro, ma non smettiamo di fare rumore contro il patriarcato.
[1] M. MURGIA, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire piú, Giulio Einaudi Editore, 2021
[2] L. PIGOZZI, Amori tossici. Alle radici delle dipendenze affettive in coppia e in famiglia, Rizzoli, 2023,
[3] G. CECCHETTIN con M. FRANZOSO, CARA GIULIA. Quello che ho imparato da mia figlia, Rizzoli, 2024
Rita Bramante Già Dirigente scolastica, membro del Comitato Nazionale per l'apprendimento pratico della Musica