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Dalle 150 ore ad un sistema nazionale per gli apprendimenti in età adulta

Pubblicato il: 25/05/2022 03:24:32 - e


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Dopo due anni la più grande manifestazione culturale dei CPIA d’Italia è tornata in presenza a Perugia i primi giorni di aprile. Momento di incontro, punto di riferimento essenziale per tutti gli operatori dell’Istruzione degli adulti. Contesto di confronto e analisi delle sperimentazioni didattiche, delle ricerche sul tema, delle idee che animano il lavoro sul campo tra passato e futuro. Il Cpia, a volte confuso come un centro di insegnamenti linguistici, piuttosto che un’associazione di volontariato è una scuola pubblica dotata di una propria autonomia dal 20121, che ha radici profonde e rappresenta ancora oggi un fiore all’occhiello del sistema di Istruzione del nostro Paese.

Il percorso dell’Educazione/Istruzione degli adulti in Italia è lungo e ricchissimo di esperienze e contributi di insegnanti appassionati nel lungo cammino di alfabetizzazione di massa dall’Unità d’Italia ad oggi. Un’esperienza, quella delle 150 ore dal ‘73-‘74, poi gloriosi CTP dal ‘97, oggi CPIA che ha definito un fare educazione degli adulti attraverso molteplici modus operandi. Una moltitudine di sperimentazioni che ancora oggi hanno echi inconfondibili nelle tante storie di vita di operai e casalinghe ieri, di badanti e addetti alle pulizie, alla logistica, di aiuto cuochi oggi. L’energia e la professionalità costruita sul campo di maestre e maestri di quello che Walter Ong[1] definiva “la parola che si appoggia al suono” sottolineando come l’analisi del sensorio dell’uomo nei processi di apprendimento di una lingua richieda un approfondimento, in una visione più organica, di alcune categorie di McLuhan[2], anche in riferimento ai nuovi media, che quest’ultimo definisce vere e proprie materie prime capaci di plasmare la mente e la coscienza. L’istruzione degli adulti ha dunque fatto i conti con contesti sociopolitici ed economici sempre diversi e in continua evoluzione.

L’esperienza di contatto con i nostri studenti di oggi, molti migranti e immersi più o meno consapevolmente nella tecnologia mediatica, ci pone sempre davanti a domande cruciali che riguardano un approccio olistico piuttosto che sulla mera disquisizione di quale sia esattamente, perfettamente, il livello di partenza di quell’apprendente in lingua seconda, anche perché, crediamo sia innegabile, difficilmente si riesce ad inquadrare nell’ unico momento del test di piazzamento.

L’esperienza delle 150 ore e dei Ctp ha insegnato  che la scuola della seconda chance, del reinserimento nel mondo della formazione e della partecipazione attiva alla vita economica, politica e sociale del nostro Paese, non può che realizzarsi in una scuola sempre aperta, capace di tendere l’orecchio alle esigenze formative di quel quartiere, di quel distretto economico, di quel tessuto artigianale foriero di punti di vista, capacità, talenti, ricchezza imprescindibile di quel luogo, di quel quartiere. La scuola della sussidiarietà per eccellenza insomma. Rileggendo un’interessante intervista del 2007 a cura di Lidia Martin[3], rivolta a due docenti dei primissimi anni delle 150 ore e di un ex studente degli anni ’70 è possibile coglierne tutto il significato profondo del fare scuola degli adulti. L’accoglienza svolta direttamente nei mercati e nelle fabbriche, i libri al ciclostile battuti dai docenti e dettati dagli studenti stessi, i delegati dei ministeri di Inghilterra, Francia e Germania che venivano ad osservare come i nostri colleghi di allora lavoravano con gli adulti. Si legge nell’intervista “C’era una domanda di strumenti, non solo di lettura della busta paga, ma anche degli strumenti matematici che stavano dietro, di strumenti linguistici, di valorizzazione della lingua orale. Mi ricordo che i primi alunni parlavano benissimo, anche perché erano i più politicizzati, ma davanti al foglio bianco ammutolivano, per cui c’era il problema di superare l’impatto con il testo scritto”.  La questione degli strumenti, oggi per lo più linguistici, la necessità   di superare i propri limiti, le proprie paure, le proprie ansie credo rappresenti il fil rouge di tutta l’esperienza di allora e di oggi. Il dibattito in corso sulla didattica per competenze e per conoscenze, anche nella scuola del mattino conferma, che la questione del fare scuola non si esaurisce nella ricerca didattica ma  deve essere sempre contestualizzato nel quadro del mondo del lavoro e quindi necessariamente nei riferimenti essenziali della pedagogia e dell’andragogia.

Certamente dagli anni ’70 ad oggi è cambiato il contesto, che è peraltro in continua evoluzione[4] ,ma non sono cambiate molto le situazioni: i brontolii dei mariti delle donne che vengono a scuola, i veti dei datori di lavoro che non vedono di buon occhio il lavoratore che vuole studiare, le ansie delle badanti che spesso trovano nella scuola l’unico contatto sociale, gli aiuto-cuoco che nell’unica pausa di lavoro tra le 15 e le 17 corrono a scuola. In questo periodo di pandemia abbiamo anche dovuto prendere atto che a qualche studentessa badante a tempo pieno è stato perfino chiesto dai figli della “nonna” di non vaccinarsi per non perdere giorni di lavoro nel caso avesse avuto la febbre. Il contesto è cambiato ma le situazioni personali degli adulti che vogliono riappropriarsi del proprio cammino di studio e lavorativo restano quelle di sempre: privazione, spesso solitudine, conflitto.

Il rischio che l’ingegneria didattica dell’italiano L2 spazzi via un  lavoro sul campo, di sperimentazioni, analisi, educazioni e processi culturali è sempre più evidente in quelle ricerche che di  tanto in tanto emergono a supporto di una tecnologizzazione della parola senza processo, o come direbbe Ong senza “interiorizzazione progressiva della coscienza”. Dove la parola è ridotta a feticcio del comunicare in modo funzionale al sistema, tipico di una società dell’intelligenza artificiale dove l’uomo esegue i processi pensati dalla macchina. Dove la relazione non è necessaria fuori dal processo produttivo e così l’oralità lascia sempre più spazio alla scrittura funzionalistica.

Crediamo sia necessario ridare valore individuale e collettivo alla diversità, la quale va incoraggiata ed espressa fin da bambini per un pieno sviluppo della personalità.

Le differenze non realizzate rischiano di diventare frustrazioni e cadere nell’opposizione silente o indifferenza. Gli ultimi decenni, tuttavia, hanno posto importanti questioni relative all’accesso allo studio e all’organizzazione dell’istruzione degli adulti. Sono i dati attinenti alla dispersione scolastica e al fenomeno dell’analfabetismo di ritorno a determinare le sfide che oggi la scuola ha dinanzi a sé. Se ci fosse un Pecup del docente dell’EDA direi che si avvicinerebbe molto ad un professionista che non entra in classe senza il suo KIT essenziale di lavoro, composto dai descrittori del QCER, liste lessicali per livello, strutture grammaticali e funzioni comunicative per livello, testi autentici semplificati, il Profilo della Lingua italiana, il sillabo Pre-A1 e seguenti, come una straordinaria rete d’interfacce, punto d’incontro e di conversione tra vari sistemi orali a base di formule, ripetitiva e sistemi scritturali a base prescrittiva, com’è proprio dei testamenti della nostra e delle altre culture. Ma anche, con bene in mente i principi del Manifesto della formazione accogliente[5], e la formazione necessaria di base dell’andragogia e dei processi culturali.  Questo significa conoscenza della ricchissima eredità dei maestri dell’Eda, curiosità e disposizione all’ambiente socio-familiare di provenienza alla cultura, lingua, stili di vita al background cognitivo ed esperienziale ai modi di apprendere, interessi, motivazione, approccio allo studio.  Ne risulta sicuramente un profilo molto alto a cui tendere, senza stancarsi, preferendo la creatività alla burocrazia, la ricerca culturale all’indagine specialistica.

Sebbene l’esperienza delle 150 ore, soprattutto quella dei primi anni, resti un’utopia difficilmente replicabile, anche in ragione dell’assenza nel nostro ordinamento di una selezione pubblica di un corpo docenti specializzato nell’educazione degli adulti, da questo seminario emerge, tuttavia, l’esigenza di ripensare alla funzione sociale dell’istruzione degli adulti. Un aspetto che Fierida rileva attraverso la memoria, le fonti, la storia orale, i protagonisti. Perché in una fase storica come quella attuale, caratterizzata da un’informazione istantanea e consumabile, la funzione sociale di una scuola aperta, mutualistica e per certi versi sperimentale come quella degli adulti, è una conquista da preservare in quanto luogo e veicolo di cultura.

Anche se la legge prevede tuttora permessi retribuiti per motivi di studio, nonostante la questione della formazione continua sia tutt’altro che marginale, «Non sono pochi coloro che si rendono conto del peso negativo che la deficitaria condizione di literacy e numeracy degli adulti italiani ha su tutta la nostra vita, sociale, produttiva, economica, perfino, ci spiega l’UE, finanziaria» affermava Tullio De Mauro in un Convegno sul tema.[6] Come a dire che il nostro è un Paese in declino forse anche a causa «del mondo oscuro della bassa scolarità intrecciata a una minacciosa e ancor più grave dealfabetizzazione in età adulta». Ipotesi non del tutto remota guardando al problema della disoccupazione: a ben vedere la laurea e più in generale i titoli di studio hanno uno scarso rilievo in Italia nel conseguimento di un posto di lavoro, ed è plausibile pensare che uno dei motivi risieda proprio nel basso tasso di scolarizzazione del nostro Paese, dove possedere un titolo accademico significa in pratica far parte di un’élite. E poi c’è il discorso dei posti di lavoro di alto profilo: il fatto che scarseggino non è forse anch’esso legato alla bassa scolarizzazione della nostra popolazione e a una struttura industriale impostata in questo senso?

L’avventura delle 150 ore potrebbe essere dunque una proposta per il futuro, l’occasione per aprire un rinnovato discorso e, soprattutto, un rinnovato, coordinato impegno per ottenere in Italia un sistema nazionale di promozione degli apprendimenti in età adulta. Il lavoro lo merita e lo esige il patrimonio umano, culturale e civile che è il lascito prezioso delle 150 ore.

 

[1]  Walter J. Ong, Oralità e scrittura. La tecnologia della parola, il Mulino, 1982

[2] Eduard C. Lindeman, The Meaning of Adult Education, New York, New Republic Inc., 1926 Secondo l’autore 1. l’educazione è un processo permanente si basa su ideali non professionali, inizia proprio quando finisce la formazione specialistica perché il suo scopo è dare significato alla vita nella sua interezza. 2. L’educazione coincide con il raffinare la razionalità e intelligenza per fare della vita un’avventura creativa; significa avere consapevolezza dell’interdipendenza tra emozioni e pensiero evitando connotazione dell’educazioni che fanno leva esclusivamente o sulle nozioni o sul pathos. 3. Equazione educazione-vita, giustifica i primi due. L’educazione è vita ovvero attribuzione di significato a sé nel rapporto con gli altri, le cose, le situazioni. Non c’è vita senza educazione e viceversa

[3] http://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2017/10/Zap14_10-Voci.pdf

[4] Solo negli ultimi dieci anni, dall’autonomia scolastica ad oggi, sono cambiati 8 Ministri dell’Istruzione, 7 Ministri dell’economia, 6 Ministri del lavoro e politiche sociali. E’ chiaro che si tratta di contesto molto frastagliato che fatica a trovare piste di lavoro stabili.

[5]  Documento di estrema importanza anche perché frutto di un lavoro dal basso, corale ad opera dei CPIA , Università, e di alcune associazioni del terzo settore https://epale.ec.europa.eu/sites/default/files/manifesto_formazione- accogliente-def.pdf

[6] Università di Reggio Emilia, “Cittadinanza e analfabetismo, Storie, dati e diritti in Italia e in Europa”, 2016

 

 

 

Antonello Marchese Centro Regionale Ricerca Sperimentazione e Sviluppo del Piemonte, Emilio Porcaro Dirigente CPIA metropolitano di Bologna, capofila rete RIDAP

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