Deschooling Society, un cinquantennale
Giusto cinquant’anni fa, nel 1971, veniva pubblicato in inglese e subito tradotto in italiano Deschooling Society, di Ivan Illich, filosofo, sociologo, antropologo, viennese cosmopolita, nonché sacerdote cattolico e rettore di università.
Nato nel 1926, Illich fruì di un’educazione che diremo oggi non formale, a causa dell’esclusione da una prestigiosa scuola elementare viennese, da lui subita a sei anni in quanto considerato ‘«un bambino ritardato», come egli stesso riferisce nel suo Il mito dell’istruzione (1992). Fu quella una circostanza non di poco conto per gli sviluppi successivi della sua personalità e della sua diffidenza nei confronti di qualsiasi forma di istituzionalizzazione.
Il piccolo Ivan poté ‘compensare’ la mancata scolarizzazione usufruendo della biblioteca familiare dei nonni e della guida della madre. Fin da subito fu dunque protagonista del proprio percorso formativo, senza alcun vincolo curricolare e propedeutico, senza cioè esperire il rigido ordo studiorum, elaborato dai gesuiti nel XVII secolo e ancora oggi alla base delle nostre istituzioni scolastiche.
Quando lessi Deschooling Society ero agli inizi della mia carriera di insegnante, successivi di qualche anno alla pubblicazione del testo, e ne rimasi profondamente impressionato (forse anche perché essa tornò ad alimentare le mie radici culturali carraresi, anarco-repubblicane!). Il clima non era più quello fervoroso del ’68, ma i suoi echi, nella scuola e nella società in generale, si facevano ancora sonoramente sentire, soprattutto sul piano della critica alle istituzioni.
In particolare, mi attiravano in Illich le sue idee e azioni in pro delle autonomie religiose e culturali dell’America Latina, in opposizione alle «ingerenze missionarie» degli USA in quelle stesse zone, come pure la sua critica militante delle ideologie moderne, con la rivendicazione dei valori da lui definiti «vernacolari», sottratti cioè alle logiche del mercato.
All’opposto di Comenius (omnia omnibus omnino), Illich affermava perentoriamente che «tutto quello che ho imparato l’ho imparato fuori della scuola». Allergico alle progettazioni didattiche (cosa mai avrebbe pensato dei nostri POF/PTOF!), riferisce, sempre ne Il mito dell’istruzione, di un significativo incontro avuto sul finire degli anni ’50 con Jacques Maritain, a cui espresse i suoi dubbi filosofici sul concetto di ‘pianificazione’. Il vecchio Maritain non sapeva neppure il significato del vocabolo, intrepretandolo come ricollegabile alla contabilità. Dopo una serie di vane approssimazioni, disse alla fine: «Ah, maintenant je comprends, c’est une nouvelle espèce du péché de présomption».
Naturalmente Illich fu sempre oggetto e soggetto di feroci attacchi, come pure di ingiusti travisamenti (in polemica con la Chiesa rinunciò al sacerdozio, in polemica con la medicina ufficiale si lasciò morire di cancro nel 2002, dopo aver – coerentemente – rifiutato ogni «istituzionalizzazione medicale»). Autore scabro e di non facile lettura, fu considerato al centro di un groviglio di contraddizioni: profeta del passato, illuminato oscurantista, libertario che predica disordine. Le mie simpatie di allora – che sono vive ancora oggi – accesero discussioni anche aspre con i miei colleghi e amici ‘di sinistra’, che rimproveravano a Illich una visione elitaria, individualista, personalistica (vedi appunto l’amicizia profonda che lo legava a Maritain).
Certo, l’errore più grave che si possa commettere nei suoi confronti è quello di proclamarsi ‘illichiani’. Non l’avrebbe voluto neppure lui, nonostante i tanti suoi studenti e seguaci. Non bisogna tuttavia neppure pesantemente – e maliziosamente – fraintenderlo, vestendolo dei panni di un dinamitardo sociale. Illich non ha mai detto che voleva ‘distruggere la scuola’, bensì, semmai, liberarla dalla gabbia istituzionale che rischiava – soprattutto negli allora Paesi in via di sviluppo – di ottenere risultati opposti a quelli che si prefiggeva, in particolare confermando e certificando, lungi dall’annullarle, le differenze delle condizioni di partenza.
La lettura di Illich rappresenta ancora oggi un prezioso antidoto nei confronti del pensiero unico, della vulgata ‘progressista’ e tendenzialmente totalitaria che ha l’ambizione di stabilire erga omnes cosa sia il bene comune, cosa la salute, cosa l’istruzione.
Basterebbe a tal proposito rileggere il suo Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza, che già circa quarant’anni fa (1984) affrontava e proponeva una lettura controcorrente della questione oggi tanto dibattuta a proposito del DDL Zan, cioè a dire «la perdita del genere e la sua trasformazione in sessualità».
Scrittore scomodo, capace di straordinarie visioni (si pensi alla sua intuizione, pur in assenza di una società globale internettiana, dell’importanza delle «learning webs» per la creazione di un sistema educativo efficace), andrebbe periodicamente riletto, per tener vivo il pensiero critico e la tensione nei confronti di tutto ciò che comprime la libertà individuale. Una compressione che in talune circostanze, come quelle attuali, è ineludibile e necessaria, ma sul cui prezzo dobbiamo comunque e sempre interrogarci.
Claudio Salone