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Vittoria Gallina intervista Mauro Palma

Pubblicato il: 09/09/2020 06:46:06 - e


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(VG) Nei mesi in cui le scuole sono rimaste chiuse abbiamo cercato di documentare su Educationduepuntozero in quali modi e con quali strumenti molti docenti sono riusciti a interpretare la “distanza” come una delle possibili varianti, anche se imposta, della relazione didattica. In questo contesto ha trovato posto anche qualche osservazione documentata e qualche riflessione sulla scuola in carcere. Non abbiamo intenzione di tracciare un bilancio, ma ci interessa riflettere sul fatto che le restrizioni imposte dalle varie forme di confinamento hanno fatto emergere in modo chiaro due cose: da un lato i gravi problemi che la scuola si trascina da anni, che dovrebbero giustificare un serio impegno per il cambiamento, piuttosto che per la ripresa giocata prevalentemente sui numeri (classi, studenti, docenti, personale ecc); dall’altro, e lo dico in modo rozzamente semplicistico, il fatto che della scuola non si può fare a meno, perché togliere la scuola vuol dire sottrarre un elemento fondamentale di una società responsabilmente consapevole. È questo secondo l’aspetto, apparso con chiarezza in molte delle esperienze, che non dovrà essere dimenticato. Mi sbaglio o la scelta di presentare la relazione al Parlamento del 2020 in un’aula Universitaria ha voluto avere questo significato? Ed aggiungo ancora: nel tuo continuamente “vedere e visitare” quale ti è apparsa la conseguenza più grave dell’interruzione della consuetudine scolastica nei luoghi in cui confinamenti e isolamenti si sono drammaticamente moltiplicati?

(MP) Sono contento che la scelta di presentare la Relazione annuale al Parlamento in un’aula di una istituzione dell’istruzione e dell’educazione alla vita adulta consapevole, quale è una sede universitaria, sia stata colta come segnale e non come mera conseguenza della necessità di disporre di spazi ampi per mantenere il necessario distanziamento tra le persone presenti.  Perché proprio quando le persone sono state riportate restrittivamente ai propri ambiti individuali o micro-sociali, in famiglia, nella comunità di affetti, nello spazio di libertà limitata, la centralità del fornire strumenti di comprensione e di costruzione di una rete conoscitiva e concettuale è emersa in tutta la sua ‘rotondità’. Certamente le situazioni di chiusura sperimentate nei mesi recenti, seppure tenute insieme da un filo comune, sono ben diverse l’una dall’altra e grave è l’errore di chi ha voluto leggere il periodo del lockdown come esperienza di per sé unificante. Al contrario, proprio il suo essere apparentemente accomunante ha fatto esplodere la diversità dei vari contesti: non soltanto relativamente agli spazi disponibili, tra chi era in comode case, chi era in stretti alloggi con i propri familiari e chi era in luoghi non scelti, ma imposti da una molteplicità di circostanze; bensì anche relativamente alla capacità soggettiva di essere padroni del proprio tempo e del proprio congetturare. Sono questi ultimi aspetti che, nel loro modularsi differentemente, hanno prodotto vissuti diversi dell’esperienza della chiusura e hanno mostrato l’importanza del poter contare su un patrimonio personale di capacità di costruzione di un pensiero autonomo. Qui entra in gioco l’istruzione, come valore per la consapevolezza democratica e torna l’importanza dei tempi, delle risorse e anche proprio dei ‘luoghi’ dove l’istruzione si struttura e a sua volta struttura il pensiero di coloro che ne sono ricettori e attori.

Il rivolgermi al Parlamento dall’Università – e per un giorno quell’aula è stata la sede del Senato, giacché quest’anno toccava alla Camera Alta ospitare la mia Relazione – è stato il modo per dire che quello spazio era in quel momento emblematicamente il luogo della rappresentanza del Paese nell’ascoltare il bilancio della tutela dei diritti di coloro che hanno meno voce, perché privati della libertà personale. Parallelamente, voleva anche dire – e sono stato esplicito nel manifestare questo aspetto – che dai luoghi dell’istruzione occorre ripartire se si vuole trarre qualche positività dall’esperienza vissuta. Ma che bisogna farlo per tutti e non solo per alcuni. Perché occorre sapere che l’istruzione in quel luogo principe della privazione della libertà quale è il carcere, si è fermata del tutto agli inizi di marzo 2020, senza riprendere neppure timidamente o in remoto, e la non ripresa in tali luoghi è tema ben più grave dei tanti altri aspetti tecnici che affollano il dibattito di queste settimane attorno alla ripresa scolastica.

Troppe volte, forse, citiamo – critico me stesso per primo – le parole di Pietro Calamandrei, quando intitolava «Bisogna aver visto» il numero de Il Ponte del 1949 dedicato al carcere. Troppe volte, se poi non vediamo o se abbiamo l’occhio talmente abituato alla bruttezza, da non riuscire più a farci scandalizzare per ciò che vediamo. Eppure, basta entrare in questi luoghi per poche ore per accorgerci di alcuni effetti del periodo trascorso e del rischio che quanto vediamo possa divenire normalità, se non si attua una rapida e forte inversione di tendenza. I corridoi degli Istituti penitenziari sono divenuti, nella stragrande maggioranza dei casi, luoghi sordi e vuoti, senza la presenza di personale esterno responsabile di progetti vari e comunque portatore di un pensiero ‘altro’ rispetto alla logica consuetudinaria di chi in essi opera; la possibilità di impiegare il tempo recluso in funzione di una propria crescita soggettiva, attraverso l’istruzione, si è vanificata e resta il fluire di un tempo ripetitivo che oltretutto contrasta con l’ipotesi di reinserimento verso cui l’esecuzione penale è costituzionalmente indirizzata. Ma, anche in altri luoghi, diversi per la ragione del proprio esservi ospitati, ma simili per la totalità istituzionale che li connota, il risultato è simile: la chiusura, per esempio, di una residenza per disabili e il conseguente non accesso di persone care e di altre figure funzionali al recupero, hanno spesso determinato nelle persone ospitate un arretramento del percorso cognitivo, che, qualora perdurasse, potrebbe vanificare quanto faticosamente raggiunto nel passato. Qui, l’istruzione, nel suo più ampio significato, gioca un ruolo essenziale. Lo stesso vale anche per gli anziani ospitati nelle apposite residenze assistenziali, poiché apprendere è tema ampio e non stretto a contenuti specifici.

Tutto questo quadro rischioso richiede un approccio rapido e strutturato che punti ad affrontare un tema certamente non semplice, ma ineludibile: recuperare, da parte di ciascuna persona ristretta. significato al proprio tempo, attraverso percorsi di conoscenza.

(VG) Scorrendo le pagine del rapporto vedo che ritorni più volte su un concetto: una società democratica deve essere consapevole, e non a parole, di essere “una”, capace di riconoscere le rotture, le ferite, i tagli che la attraversano come propri e non come “altro da sé”. Cosa si dovrebbe fare e quali gli strumenti per rendere questo concetto, non dico, sapere condiviso, ma almeno riflessione presente al dibattito pubblico? 

(MP) Il punto centrale per aprire la riflessione sul come agire e sugli strumenti da mettere in campo per portare la riflessione a una platea non più limitata solo a coloro che per motivi vari conoscono questi ‘luoghi’ si chiama riconoscimento. Riconoscere che le persone a vario titolo ristrette, i luoghi ove sono ospitate, le relazioni che in essi si tessono, sono parte del nostro corpo sociale. Una società che non riconosca come ‘propri’ gli aspetti complessi e difficili del proprio corpo non è, in realtà, in grado di far agire positivamente anche quelle altre parti che ritiene essere ‘sane’ e non complesse. Perché il riconoscimento non è soltanto un’operazione intellettuale; è azione. Vuol dire abbandonare l’astratto valore di un’uguaglianza che, non sapendo leggere le differenze, propone la distribuzione uniforme di opportunità come massimo valore di equità. Al contrario, l’uguaglianza ‘concreta’ è quella che agisce differentemente secondo i bisogni, dando più laddove c’è più necessità. Due esempi, anche banali: spesso in carcere il principio – fondamentale – di equivalenza nella tutela della salute, dentro o fuori delle sue mura, è declinato riproponendo all’interno le stesse regole di accesso, inclusi i tempi di attesa, che ognuno di noi sperimenta all’esterno; non considerando così né la particolare vulnerabilità soggettiva delle  persone ristrette, spesso portatrici di percorsi individuali di vita assolutamente marginali, né  la loro intrinseca impossibilità di cercare ‘altrove’ soluzioni ai propri problemi, in virtù della propria privazione della libertà. Questa apparente equità rende falso il riconoscimento formale di quel segmento di popolazione ristretta come ‘proprio’ perché, non prendendo atto della intrinseca differenza, nega il riconoscimento sostanziale dei bisogni che esso esprime. In modo simile – un secondo esempio – è la proposta di percorsi d’istruzione che, non muovendo dalla materialità delle condizioni soggettive di vita di chi adulto, rischiano di regredire a un livello di infantilizzazione esecutiva che finisce col negare la soggettività responsabile.

Gli aspetti che possono portare a una maggiore consapevolezza sociale del tema e, quindi, a una diversa presenza nel dibattito pubblico, risiedono, a mio parere, nel superamento di due dicotomie: la prima è tra il rivolgersi alle aree di privazione della libertà come a una ‘parte di sé’, intesa come parte dello stesso corpo sociale, oppure come una ‘parte altra’ verso cui riservare attenzione e impegno, senza però costituire con essa un’unità articolata; la seconda dicotomia è tra il riferirsi alle persone ristrette come a un insieme di ‘destinatari di un trattamento’, anche se ben progettato, oppure di persone pienamente ‘responsabili’ del proprio percorso, anche se portato avanti  con arretramenti o errori e spesso con necessità di orientamento. Questa seconda dicotomia è in fondo alla base della contraddizione tra un modello re-infantilizzante della persona detenuta, oggetto di un’azione rieducatrice da altri definita e spesso articolata in regole, e un modello di piena responsabilità che veda nell’azione dell’operatore penitenziario essenzialmente una funzione che re-indirizzi senza togliere soggettività. 

Credo che si debba lavorare attorno a queste due dicotomie, anche assumendo l’indicatore della ‘produttività’ del sistema sanzionatorio. Che – non dimentichiamo – è un sistema costoso e in fondo fallimentare nel suo riprodurre situazioni analoghe, intervallate da periodi di reclusione e dense di recidive.

(VG) Il diario di un anno, che apre il volume, costringe chi lo legge a guardare continuamente orizzonti lontani e problemi vicini. Ritrovo spesso i monitoraggi di voli di rimpatri forzati, credi che questi siano riducibili a necessarie prassi scaturite da “violazioni indebite” da parte di chi viene rimpatriato o li vuoi porre all’attenzione dei diversi soggetti, cui la relazione è rivolta, come inutili e inefficaci prove di debolezza e vuoto politico sul tema delle migrazioni?

(MP) Parlare di ‘politica’ sul tema delle migrazioni è veramente eccessivo: sia per quanto riguarda l’Italia, sia per quanto riguarda l’Europa. Difficile leggere, infatti, una qualsiasi ‘politica’ diversa dalla gestione dell’esistente, priva di sguardo di prospettiva. Più esatto è, infatti, parlare di un insieme di tentativi di affrontare le situazioni con atteggiamento emergenziale, senza comprendere che ci si trova di fronte a un problema strutturale che richiede un progetto più ampio. Il passaggio da emergenza a strutturazione, appunto, di una ‘politica’ mi sembra essere ancora distante, nonostante sia doveroso riconoscere un diverso modo di affrontare nel dibattito pubblico il tema, da parte dell’attuale ministro dell’interno.

Proprio la connessione tra lo sguardo ‘lontano’ e l’urgenza vicinissima è richiesta nel provare a costruire questo passaggio. Da qui la scelta, che comunque vale per ognuna delle aree d’intervento del Garante nazionale, di far dialogare gli interventi contingenti e territorialmente localizzati nel nostro Paese, con gli eventi di ambito più ampio entro cui le nostre scelte politiche si collocano. Non è solo la necessità di un riferimento geo-politico, è anche un’impostazione concettuale attraverso cui leggere gli eventi che affrontiamo quotidianamente. Tanto più quando il tema è quello delle migrazioni, delle loro necessità e delle loro conseguenze: l’affrontare ciò che è noto, ma che soggettivamente si ritiene invivibile verso un altrove oggettivamente ignoto e che si spera essere vivibile. È un tema intrinsecamente non locale e che richiede alcuni punti di chiarezza. Da un lato va tenuta ferma l’imprescindibilità dei diritti soggettivi attinenti alla persona in quanto tale, indipendentemente dal suo essere presente regolarmente sul territorio nazionale o meno, dall’avere o meno un curriculum d’infrazioni amministrative o anche penali, dall’essere o meno possibile destinatario di un provvedimento di protezione internazionale: sui diritti dell’human being nessun bilanciamento con altri fattori è possibile. Da un altro lato, va tenuta presente la necessità di mantenere una capacità territoriale di inserimento ‘armonico’ e non conflittuale, fatta di interazioni ben diverse da quelle che genericamente sono riassunte nei termini di ‘tolleranza’, ‘inglobamento’ o ‘accettazione’. Torna anche qui la parola-chiave che ho ritenuto essenziale nella Relazione al Parlamento: riconoscimento. Solo con questa chiave di lettura si possono prendere decisioni e provvedimenti anche a volte difficili, quale rimpatriare forzatamente persone verso il Paese di provenienza, per una serie di motivi di natura amministrativa, penale o di mancata accettazione di doveri inerenti alla propria presenza in una comunità. Ma, senza la capacità di riconoscere le persone come tali, pensando invece che la loro identità soggettiva si esaurisca con la loro identificazione amministrativa, si rischia di creare dei grandi agglomerati di sfruttamento, preda e consolidamento della criminalità.

(VG) La relazione ha, come al solito, un’articolata definizione strutturale, che affianca informazioni e riflessioni su aspetti di natura giuridico- istituzionale, aspetti del dibattito politico, che saggiamente, credo, mantieni sottotraccia e presentazione di tutti i dati statistici che permettono di cogliere e interpretare i gravi problemi trattati. Al centro di tutto questo poni sempre una “chiave di lettura”, che questo anno trovo molto importante: introduci il concetto di soggettività e ti fermi su quello di persona, sulle tante persone che popolano, vivono, interpretano e lavorano nel mondo in cui la norma è il controllo e il confinamento. Scorro le descrizioni, che nominano le diverse condizioni di tutta questa composita “popolazione”, e noto che si passa da una descrizione fatta per aggettivazioni (persona vecchia, malata, vulnerabile, colpevole, reclusa ecc.) a alla indicazione di una serie di funzioni (… che osserva, … che giudica, … che prende in carico, ecc.). Ti chiedo di ripercorrere il ragionamento che ha portato alla costruzione di questa prospettiva, che mi sembra centrale alla funzione del garante nazionale e dei suoi collaboratori. 

(MP) La Relazione di due anni fa aveva come chiave tematica di lettura le situazioni in cui la privazione della libertà si concretizza, sia per atto formale, sia per una serie di contingenze: de iure nel primo caso, de facto nel secondo. Avevamo visto come questa seconda specie si stia ampliando nella complessità contemporanea e come questa forma ultronea di privazione della libertà sia contornata da minori garanzie di quella formale, anche perché non ricorribile davanti all’autorità giudiziaria. Per l’una e per l’altra, nella Relazione dello scorso anno, abbiamo esaminato i luoghi dell’attuazione, considerandone anche alcuni ‘stravaganti’: dalla nave dove le persone sono trattenute senza avere un porto di approdo, in attesa di decisioni di natura politica, fino alla stanza vuota dove con una logica di sottrarre cose alle persone «per il loro bene» si finisce nell’espropriarle di ogni soggettività. Nella Relazione di quest’anno abbiamo voluto soffermarci sulle persone che si trovano in tali situazioni.

Occorre sempre essere cauti quando si riflette sulla persona: si rischia sempre di attribuire a questo termine un valore ontologico avulso da qualsiasi contesto. Per questo è bene partire dalla Costituzione, cioè da come la nostra Carta assume il concetto di ‘persona’ per definirne i diritti fondamentali. La Costituzione non si rivolge a una sorte di ‘monade’ svincolata dal suo schema relazionale, perché è quest’ultimo a definire il concetto intrinseco della persona stessa. La persona in un certo senso è il nostro essere sì individuo, ma colto però nel rapporto di vita interagente con altri e come tale da essi compreso

Da qui l’attenzione della Relazione alla persona, così intesa. Riconoscendone l’assoluta unicità individuale, comprendendo l’imprescindibilità della sua collocazione non al di fuori, ma all’interno di qualsiasi universo di discorso che sappia rispecchiarsi nella sua condizione e, infine, rapportandosi al suo essere soggetto in grado di costruire conoscenza e autonomia, con una propria storia, fosse anche di sconfitta, ma sempre espressione del suo complessivo sentire e agire. Per questo, parliamo delle persone private della libertà considerandone ciascuna sia individualmente, sia collettivamente nello schema relazionale in cui è contingentemente collocata e in quello della sua vita oltre i limiti che la privazione impone. Parliamo della sua soggettività.

Se, come ho detto, la Relazione dello scorso anno poneva la sua centralità nei diversi ‘luoghi’ dove la privazione si realizza, quella di quest’anno ha posto, appunto, il centro nelle diverse soggettività che in tali luoghi si evidenziano. Distinte tra loro per ruolo, funzione, ragione del proprio trovarsi in essi, ma unite dalla complessiva interconnessione che proprio questi luoghi determinano. Così abbiamo considerato tre connotazioni soggettive diverse nel rapportarsi a quei luoghi: chi vi è assegnato per una propria situazione personale, di età, di diversa abilità, di malattia; a chi invece vi si ritrova come conseguenza del proprio agire, sia per qualcosa penalmente rilevante che possa avere commesso, sia per aver affrontato il rischio dell’irregolarità spinto da altri fattori o anche per scelta;  e anche la soggettività di chi deve decidere sulle vite altrui è considerata come connotazione problematica della persona nel suo percorso individuale.

«Tutte soggettività – ho scritto nella Relazione – che hanno a che fare con la limitazione o la privazione della libertà. Solo considerandole nei loro aspetti di sempre difficile e non univoca interpretazione riacquistano implicitamente il proprio nome ed evidenziano la propria fisionomia. Cessano di essere numeri. L’anonimia della persona è, infatti, il rischio maggiore di tutte le collettività ristrette».

(VG) Per concludere: dal prossimo anno si re-introduce l’Educazione civica nelle scuole, intesa come Educazione alla cittadinanza attiva. Ti faccio una provocazione: quali sono i capitoli della tua relazione che dovrebbero essere proposti come testi di riferimento per questa “nuova” disciplina? 

(MP) Sarò breve e rinvio a un altro mio intervento. Recentemente ho scritto per una pubblicazione rivolta agli insegnanti, una riflessione attorno al tema Comportamento, distinguendo questo termine a quello un tempo utilizzato di Condotta. La mia riflessione è stata attorno a quali possano essere degli indicatori che permettano di ‘valutare’ il comportamento di un giovane nella sua fase evolutiva scolastica. In fondo – hai ragione – ho proposto i temi della mia recente Relazione al Parlamento. Ma, soprattutto ho scelto quello del saper cogliere come ogni persona abbia una fisionomia imprescindibile nel suo relazionarsi agli altri e che la qualità di tali relazioni è il terreno di costruzione di una vita adulta. Su di essa vale la pena spendere energie nel percorso scolastico.

Mauro Palma Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Vittoria Gallina della redazione di Education2.0

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