Friday for future. Indicazioni per una scuola del futuro?
Le azioni per il clima e la scuola italiana.
Il 15 Marzo si è tenuta, in tutto il mondo, la più grande manifestazione di giovani per i cambiamenti climatici. Come hanno già scritto in tanti, l’aspetto più stupefacente è che il movimento abbia avuto origine non da una grande organizzazione ambientalista, non da istituzioni mondiali o da scienziati di fama, ma da una ‘ragazzina’: Greta Thunberg ha 16 anni, ma nessuno è capace di chiamarla donna, sarà per le treccine e l’aria ancora da bambina. Greta dicono sia, un po’, eterodiretta, dicono che sia ‘malata’, forse è geniale, di fatto ha parlato in maniera chiara e decisa, accusando gli adulti di non avere e di non dare prospettive: di ‘rubare il futuro’ ai giovani come lei. E’ questa accusa che spiega probabilmente il successo che la sua iniziativa ha avuto tra i giovani, soprattutto tra quei giovani che godono di un presente di benessere ma che crescono nel timore di un futuro che li faccia ‘tornare indietro’, di un futuro che non sanno se potranno, e se saranno in grado, di modificare.
Parlare chiaro, richiamare gli adulti alle loro responsabilità, vedere il mondo ‘in bianco e nero’, dichiarare l’urgenza di un’azione non più rimandabile, questi sono i fattori che hanno chiamato i giovani in piazza. Con quale consapevolezza da parte di chi ha seguito l’invito di Greta? Con quale conoscenza dei fattori in gioco e delle possibili strade per mitigare i cambiamenti che ci aspettano? Con quale speranza in un futuro migliore?
Hanno fatto parlare le interviste di un quotidiano romano in cui si metteva in luce l’ignoranza dei ragazzi rispetto ai temi per cui stavano manifestando. La tesi, neanche troppo sottintesa, era: non fatela tanto grossa, hanno voluto solo saltare la scuola, devono tornare a studiare, solo dopo potranno pretendere di avere la parola. A parte la significatività di una decina di interviste – quante ne sono state fatte in totale? quante e quali non sono state rese pubbliche? quale era la percentuale di ‘ignoranti’? – e il fatto di metter assieme nelle domande due fenomeni completamente diversi – cambiamenti climatici e buco nell’ozono, non si capisce se accomunati nella testa degli intervistatori o volutamente confusi – le risposte degli studenti dimostravano soprattutto la lontananza della scuola italiana dalla realtà che ci circonda e da un futuro che dovrebbe contribuire a costruire.
Quando e come la nostra scuola offre strumenti per educare al futuro? Quali conoscenze – quali competenze – offerte dalla scuola sono direttamente utilizzate, e utilizzabili, per interpretare, e modificare, le condizioni, locali e globali, in cui i nostri giovani si trovano a vivere? Soprattutto la scuola secondaria – quella che è scesa in piazza – è sempre più ancorata ad un insegnamento spezzettato in discipline, ad un approfondimento del passato nella convinzione che dal passato vengano le conoscenze – e forse anche le competenze – per agire sul futuro, ma senza esempi di come concretamente questo passaggio sia possibile. In questa scuola, immersa nel passato, non si trovano tempi e spazi per affrontare i cambiamenti globali, per un’analisi degli stili di vita, per un approfondimento del ruolo dei social, per tutto quello che conta veramente nella vita degli studenti.
Si parla tanto di competenze – e anche contro le competenze, come se le competenze non includessero le conoscenze – eppure al centro della nostra scuola sono ancora le nozioni, le informazioni, corredate da qualche esercizio, ma quasi sempre senza una visione globale, che chiarisca il ruolo delle discipline nel mappare il mondo, e con un predominio della teoria sulla pratica.
La responsabilità allora, forse, non è tanto degli studenti che non si impegnano abbastanza: abbiamo programmi più ampi di moltissimi paesi europei, libri di testo bellissimi ma che somigliano ad enciclopedie – 5000 pagine circa da portare all’esame di maturità nei licei -, un anno in più di scuola rispetto alla media mondiale, eppure nei test PISA non raggiungiamo la media internazionale e nell’indagine PIAAC abbiamo una percentuale altissima (circa il 28%) di adulti ‘low skilled’, e non ci domandiamo il perché.
Ci basta affermare che i nostri studenti universitari sono tra i migliori del mondo visto che con tanta facilità lasciano l’Italia e vengono assorbiti dalle Università estere, e non analizziamo le contraddizioni insite nei nostri risultati: pochi risultati di eccellenza, rispetto ad un basso livello medio e a un alto tasso di analfabetismo di ritorno.
Nella scuola italiana gli studenti vengono chiamati raramente ad affrontare “compiti di realtà”, problemi concreti che mantengono la complessità dei problemi reali e che vanno quindi in primo luogo ‘costruiti’ per poi andare alla ricerca di strumenti e metodi per affrontarli. Strumenti necessariamente interdisciplinari ma spesso anche ‘transdisciplinari’, in cui cioè non basta l’apporto integrato di più discipline ma occorre il contributo di chi i problemi li vive e cerca di affrontarli. I problemi ambientali reali – il recupero di una zona pubblica abbandonata, lo smaltimento degli oli esausti, la qualità dell’acqua potabile e il confronto con acqua minerale in bottiglia, … – sono tutti esempi di come la scuola possa, dedicando alcune ore ad un progetto concreto, apprendere insieme agli studenti come affrontare il futuro, come tenere insieme i vincoli – le leggi, la tecnologia disponibile, i costi, gli stili di vita consolidati, …- con le possibilità di cambiamento.
Ad un recente incontro sulle competenze – Officina 2019, organizzato dall’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali – I.R.P.P.S. – del CNR insieme al MIUR, gli insegnanti che hanno partecipato, hanno riportato esperienze positive, entusiasmanti – progetti di domotica, start-up, scuola-lavoro, coinvolgimento degli studenti nella progettazione delle lezioni – ma al tempo stesso l’impressione di essere isolati, in una scuola sempre più ‘depressa’ e chiusa in sé stessa. Riprendendo le parole di Michele, uno degli studenti della Consulta per il Lazio presenti, i primi ad essere depressi sono purtroppo gli insegnanti, che anche involontariamente trasmettono agli studenti la loro frustrazione e/o una visione pessimistica del futuro. Secondo gli studenti, non sono pochi gli insegnanti che vedono i loro alunni come una generazione senza prospettiva, che non ne riconoscono la diversità e quindi le possibilità, che non vogliono, o non si sentono in grado, di cambiare il loro modo di fare scuola. E gli insegnanti che si impegnano si sentono sempre più isolati (hanno parlato di ‘Muri di cemento nei consigli di classe’), e sentono il bisogno di maggiori possibilità di incontro, di confronto, di progettazione assieme – riconosciute dalle istituzioni, se non dai colleghi – per condividere, anche con esperti e ricercatori, il lavoro che faticosamente cercano di portare avanti.
Non sono allora gli studenti che devono tornare a scuola a studiare, ma la scuola che deve andare avanti e compromettersi nell’azione, perché come ha detto ancora una volta con chiarezza Greta ‘più ancora della speranza, ci serve l’azione. Quando inizieremo ad agire, troveremo ovunque motivi per sperare. Quindi, invece di affidarci alla speranza, dedichiamoci all’azione’.
Un’azione per il clima ma anche un’azione per una scuola che non si tenga fuori dai problemi ma che li affronti, perché è attraverso l’azione, e la riflessione sugli effetti dell’azione, che le conoscenze diventano competenze.
Michela Mayer – IASS, Associazione Italiana Scienza della Sostenibilità