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Lettera dei 600. Sbrigativa e liquidatoria?

Pubblicato il: 20/06/2017 18:18:53 -


Lo svilimento delle competenze linguistiche e comunicative potrebbe essere imputato alla didattica, il complessivo progetto formativo e connessi strumenti, contenuti, strategie insufficienti o forse sono proprio le indicazioni la causa del degrado linguistico.
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È vero: si assiste da tempo ad un deterioramento delle competenze linguistiche/comunicative e, dunque, concordo con la segnalazione dei 600 accademici e intellettuali (febbraio 2017).
Pur tuttavia non “comprendo” alcuni punti dei loro rilievi e proposte.
Mi chiedo – ad esempio – quale sia la connessione tra Indicazioni Nazionali per la Scuola primaria e Secondaria di primo grado con le carenze linguistiche che i docenti universitari denunciano?
Azzardo due ipotesi:
la didattica e il complessivo progetto formativo e connessi strumenti, contenuti, strategie … sottesi alle suddette Indicazioni sono “insufficienti” rispetto ai complessi quanto articolati e differenziati orizzonti della conoscenza e della competenza linguistica?
Le suddette Indicazioni sono le cause del degrado linguistico /comunicativo?

E, sempre nella “lettera” dei 600, se pare sbrigativa la correlazione tra competenze di base con l’oggetto delle verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo («dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva …» ) è liquidatoria la proposta di una revisione delle indicazioni nazionali.

Certamente le Indicazioni di cui sopra non sono (né si presentano) come panacea alle «carenze linguistiche e agli errori appena tollerabili in terza elementare», ma indicano e descrivono le competenze linguistiche («Oralità/ Lettura/ Scrittura/ Acquisizione ed espansione del lessico ricettivo e produttivo/ Elementi di grammatica esplicita e riflessione sugli usi della lingua) e declinano gli obiettivi di apprendimento sia al termine della classe terza e della classe quinta della scuola primaria, sia al termine della classe terza della scuola secondaria di primo grado, considerando: “che i traguardi per la scuola secondaria costituiscono un’evoluzione di quelli della primaria e che gli obiettivi di ciascun livello sono uno sviluppo di quelli del livello precedente”.

 

Il valore aggiunto è l’invito a «rispettare gli stadi cognitivi del bambino e del ragazzo e avvenire in stretto rapporto con l’uso vivo e reale della lingua, non attraverso forme di apprendimento meccanico e mnemonico».

Ben sappiamo che i programmi del 1985 – le cui coordinate valoriali, culturali, pedagogiche/didattiche sono state davvero un valido punto di riferimento del/nel mio “fare scuola” e di altri molti insegnanti dell’ex scuola elementare (allora ero maestra, nel tempo pieno) – non potevano bastare per far fronte ai processi legislativi/culturali/istituzionali/professionali che hanno investito il mondo della scuola (l’autonomia scolastica, l’entrata a regime degli Istituti Comprensivi, la legge del 27 dicembre 2006, n. 29 (articolo 1), Regolamento dell’assetto ordinamentale organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, la Raccomandazione – 2006 – del Parlamento europeo in termini di competenze …) proprio nel tentativo di interpretare e rispondere a domande formative sempre più complesse e articolate.
Ben sappiamo come la prospettiva europea abbia sollecitato un confronto costante, non solo tra sistemi di valori, tra modelli produttivi, ma anche tra istituzioni scolastiche, tra livelli e standard formativi e professionali.
Sappiamo che il testo finale delle Nuove Indicazioni, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 5/2/2013, è frutto della revisione di un gruppo di esperti e di un percorso di consultazione e confronto con 10.000 scuole attraverso vari seminari dedicati in un contesto/metodo partecipativo e corresponsabile di un apposito Comitato Scientifico al fine di indirizzare, sostenere e valorizzare le iniziative di formazione e ricerca.
Mi pare che il testo delle citate Indicazioni sia un’opportuna quanto adeguata risposta – pur scontando un sostanziale mutamento dell’indirizzo politico/culturale – alle scuole “autonome” che, nel quadro di cui sopra, sono chiamate a ridefinire profondamente il proprio profilo organizzativo, pedagogico e didattico, per interagire positivamente con il territorio e le domande formative espresse dalla società.
Il tono e lo stile delle Indicazioni non è certo autoritario né dogmatico e, indubbiamente, si innestano in un telaio psico-pedagogico-didattico significativo e accreditato.
Circoscrivendo l’attenzione alla lingua italiana, forse sono appena accennati e/o sottesi termini come dettato, riassunto, tema, pensieri … (da anni ‘50/60, come le preghierine prima e dopo la “lezione”), ma vi pervade un costante e marcato richiamo alle cosiddette competenze linguistiche, ampie e sicure, fin dalle prime righe afferenti all’italiano: lo sviluppo di esse «è una condizione indispensabile per la crescita della persona e per l’esercizio pieno della cittadinanza, per l’accesso critico a tutti gli ambiti culturali e per il raggiungimento del successo scolastico in ogni settore di studio. Per realizzare queste finalità estese e trasversali, è necessario che l’apprendimento della lingua sia oggetto di specifiche attenzioni da parte di tutti i docenti, che in questa prospettiva coordineranno le loro attività».

Proseguendo si legge:
[…] «L’acquisizione della competenza strumentale della scrittura, entro i primi due anni di scuola, comporta una costante attenzione alle abilità grafico-manuali e alla correttezza ortografica».
[…] «L’insegnante di italiano fornisce le indicazioni essenziali per la produzione di testi per lo studio (ad esempio schema, riassunto, esposizione di argomenti, relazione di attività e progetti svolti nelle varie discipline), funzionali (ad esempio istruzioni, questionari), narrativi, espositivi e argomentativi».
[…] «Il patrimonio iniziale dovrà essere consolidato in un nucleo di vocaboli di base (fondamentali e di alto uso), a partire dal quale si opererà man mano un’estensione alle parole-chiave delle discipline di studio: l’acquisizione dei linguaggi specifici delle discipline deve essere responsabilità comune di tutti gli insegnanti».
[…] «I docenti di tutto il primo ciclo di istruzione dovranno promuovere, all’interno di attività orali e di lettura e scrittura, la competenza lessicale relativamente sia all’ampiezza del lessico compreso e usato (ricettivo e produttivo) sia alla sua padronanza nell’uso sia alla sua crescente specificità. Infatti l’uso del lessico, a seconda delle discipline, dei destinatari, delle situazioni comunicative e dei mezzi utilizzati per l’espressione orale e quella scritta richiede lo sviluppo di conoscenze, capacità di selezione e adeguatezza ai contesti».
[…] «nei primi anni della scuola primaria l’uso della lingua e la riflessione su di essa vanno curate insieme».

Sempre a proposito dell’italiano le Nuove Indicazioni sottolineano

 l’acquisizione di efficaci competenze comunicative nella lingua italiana la cui responsabilità non è del solo insegnante di italiano ma è compito condiviso da tutti gli insegnanti, ciascuno per la propria area o disciplina, al fine di curare in ogni campo una precisa espressione scritta ed orale» anche considerando la sua centralità-trasversalità dal momento che ogni disciplina va ricondotta e collegata alle capacità linguistiche.
Non è affatto tralasciata la metalinguistica e la grammatica esplicita (come complesso di regole, forme, funzioni – afferenti a fonologia, morfologia, sintassi, semantica e pragmatica – necessarie per la costruzione/organizzazione corretta di concetti, pensieri, riflessioni, argomentazioni … ): dunque “come è fatta” e “come funziona” la lingua italiana (frasi, sintagmi, parole, lessico …)
Un/a docente “competente” sa bene come condurre gradualmente l’allievo verso forme di “grammatica esplicita”, con varie strategie didattiche motivanti all’insegna della scoperta, del gioco, dell’ironia, del paradosso, dell’equivoco… accogliendo le divertenti sollecitazioni di autori/scrittori/pedagogisti (es. Rodari), intervenendo/manipolando l’asse paradgmatico o l’asse sintagmatico (cambio/sostituzione/spostamento di sillabe e parole, spostare o togliere segni d’interpunzione, falsi vezzeggiativi-accrescitivi-diminuitivi, anagrammi, completamento frasi o testo, capovolgimento di una storia, raccontare una storia da un diverso punto di vista…) .
Ma sono certamente utili i giochi di simulazione prevedendo scambi dialogici o conversazioni inerenti a contesti diversi di vita (a tavola, in un parco giochi, a scuola … ), con un familiare, con un adulto (medico, maestro, impiegato alle poste, negoziante …), con un coetaneo, con un bimbo piccolo, con il fratello più grande … e, dunque, con uso di lessico, strutture e funzioni comunicative appropriate e adatte allo scopo e (sempre) favorendo l’interazione, la motivazione.

 

E, soprattutto nella scuola di base, andrebbe ri-scoperto il lavoro di gruppo, oggi più avanzato cooperative learning.
Se questo metodo didattico è discretamente diffuso nella scuola primaria, è poco praticato nella scuola secondaria di primo grado, mentre nella scuola secondaria di secondo grado è praticamente messo al bando.
Io sono stata docente anche presso IIS (lettere): qui ho fatto ricorso, fra l’altro, al “cooperative learning” pur blando; mi sentirei di dire con buon accoglimento e partecipazione attiva e responsabile – scontato l’iniziale stupore – degli studenti. Sono stata d.s. sia nella scuola secondaria di primo e secondo grado: solo molto raramente mi è capitato di constatare nelle diverse classi una pur sbiadita pratica del cooperative learning. In compenso non mancava il ricorso a questa metodologia nella programmazione di classe, nel POF …o altri documenti.
Non mi sorprende, dunque, anzi ne sono la conferma, i servizi sulla scuola: si vedono alunni disposti in banchi uno dietro all’altro o (al meglio) seduti su banchi disposti a ferro di cavallo. Insomma la lezione frontale è “ai primi posti”.
Un/a docente competente sa che la pluridimensionalità /plurifunzionalità della lingua non solo è la struttura portante su cui articolare gli obiettivi e i contenuti di questa disciplina che, non solo , dà forza alle argomentazioni, consente di esprimere sentimenti e stati d’animo, si rinnova, parla di tutto anche di sé attivando processi e operazioni mentali, ma può anche far ridere.
Tornando ora alla domanda di cui al punto 2, mi chiedo perché ricondurre cause e colpe del degrado linguistico comunicativo alle “nuove” Indicazioni, al punto di avanzare sbrigativamente una revisione?
È vero che la scuola primaria si è misurata con esse fin dal 2008-2009, ma gli studenti, che fin dal primo anno della scuola primaria ne avrebbero subito “i danni”, non hanno ancora l’età per frequentare l’Università.
Mi si farà notare che, come hanno scritto, «ormai da molti anni alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano». Prendo atto , ma perché solo adesso la stesura di un documento… e – soprattutto (e ancora) – perché proporre una risoluzione attraverso la revisione dei Indicazioni Nazionali per la Scuola primaria e Secondaria di primo grado?
Alla prima e immediata lettura della proposta di «momenti di seria verifica (condizione indispensabile) durante l’iter scolastico, per cui docenti delle medie e delle superiori rispettivamente partecipino alla verifica in uscita dalla primaria e all’esame di terza media», ho avvertito un certo fastidio; rileggendo ancora, rilevo una sorta di altalena tra snobismo e sillogismo classista, sebbene immediatamente dopo si legga «anche per stimolare su questi temi il confronto professionale tra insegnanti dei vari ordini di scuola». Ma la “serietà”, la deontologia professionale e le competenze disciplinari sono direttamente proporzionali al grado di scuola in cui si insegna?
Da chi mette l’accento e richiama in merito alla proprietà lessicale, mi aspetterei per quanto riguarda la denotazione di verifica un termine più appropriato (attendibile, accreditata, credibile, affidabile, rigorosa, valida, efficace, efficiente …). Il termine “seria” ( “non ride”?), a me comunica tristezza oltre che immutabilità.
Mi è capitato di leggere libri, saggi, articoli dei diversi firmatari e molti mi sono proprio piaciuti, ma se mi mettessi ad analizzarli con rigore puntiglioso e con presunzione – senza considerare la personalizzazione/contestualizzazione/attualizzazione con cadute nel “ricercatismo” – potrei trovare discordanze o sovrapposizioni tra “comunicazione” formale e informale.
Credo sia più opportuno interrogarsi sui processi di qualità che sottendono necessariamente un’adeguata preparazione professionale, un accrescimento delle competenze tra loro correlate ed interagenti: dunque non solo disciplinari, ma anche pedagogiche, metodologiche/didattiche, organizzative/relazionali e di ricerca.
Sono convinta che una buona percentuale dei docenti di scuola secondaria di primo e secondo grado abbia un percorso di studio (soltanto) disciplinare; indubbiamente alcuni docenti hanno arricchito le suddette competenze con percorsi formativi e aggiornamento ad hoc, ma in genere sono fatti occasionali o riconducibili a scelte personali. Di contro nel percorso di studio dei docenti della scuola primaria – accanto alle competenze di ciascuna disciplina – occupano un posto di primo piano le diverse teorie dell’apprendimento (meccanismi psicologici, strategie/metodologie, modalità, strutturazione, fasi e tappe di sviluppo …) nonché teorizzazioni psico-pedagogiche.
La conoscenza dei vari e diversi processi d’apprendimento più che il ricorso ad una o ad un’altra teoria, può costruire un valido aiuto per i docenti.
Un tema cruciale, come anticipato, è il problema della competenza relazionale e/o del metodo didattico; è vero, non esiste un metodo che vada bene in assoluto (la letteratura al riguardo offre numerosissimi esempi), ma è bene sottrarlo alla casualità o al buonsenso o, peggio, all’individualismo esagerato del singolo docente con un’adeguata formazione iniziale e continua; a scuola metodologie e strategie didattiche dovrebbero essere oggetto di attenzione, di confronto e di scelta da parte degli organi collegiali, superando quella concezione per cui la questione del metodo è una scelta individuale dell’insegnante: il che, a mio parere, nulla a che vedere con la libertà dell’insegnamento.
Insomma “in una disciplina non c’è nulla di più essenziale della sua metodologia” (J. S. Bruner) e, a scuola, essa dovrebbe concretizzarsi nel predisporre un ambiente d’apprendimento intenzionalmente significativo e motivante, sia tenendo conto del corredo di conoscenze, esperienze, modelli culturali che «bambino (studente, adolescente, allievo, alunno)» ha maturato nel suo contesto ambientale, sia proponendo situazioni di apprendimento in grado di spingere in avanti lo sviluppo individuale, di evidenziare le “aree potenziali di sviluppo”, grazie allo strumento del “linguaggio”, veicolo concreto di cultura e strumento di evoluzione cognitiva (Vygotskij).
E dunque: non era più opportuno (persino “più coraggioso” ) richiamare l’attenzione sulla necessità di assicurare già nella formazione iniziale di chi intende optare per la professione docente percorsi finalizzati all’acquisizione di competenze psico-pedagogiche-didattiche, oltre che quelle specificatamente disciplinari?

Patrizia Costanzo

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