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Pensare, ragionare, ascoltare, parlare, leggere, capire e scrivere usando la lingua giusta: la lezione di Tullio De Mauro (seconda parte)

Pubblicato il: 06/03/2017 14:54:19 -


Ieri ricorrevano due mesi dalla scomparsa di Tullio De Mauro, Education2.0 lo ricorda con le parole di Vittoria Gallina
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La lezione di De Mauro linguista è sempre anche un’ esemplare riflessione sulla storia del nostro paese e sui protagonisti di questa storia. Quando racconta la costituzione attraverso la lingua nella quale è stata scritta , parla degli uomini, dei pensieri e delle responsabilità che li hanno portati a scegliere le parole del testo. Una scelta che non è mai casuale.

Penso che questi fatti – dice infatti De Mauro – abbiano pesato, e ha pesato la qualità umana dei Costituenti, quello che oggi diremmo il training (inglese italianato), il processo di formazione di queste persone che era il frutto di una selezione durissima (le carceri, l’esilio, il riparo di Santa madre chiesa, in qualche caso) nella resistenza al fascismo, e poi nella lunga resistenza, anche armata, al fascismo e al nazismo. Era personale di alta qualità umana a raccogliere quelle esigenze. Il testo costituzionale – fatto che già è stato evocato molto bene da Messina – è un testo breve. Qui devo eccepire un po’ (intanto c’è il professor Ainis, poi ci sono illustri giuristi): nei manuali circolanti nelle nostre scuole, la nostra Costituzione è definita “lunga, rigida e non ottriata”. Allora, il ragazzo a cui non è dato il bene di vedere direttamente, come spesso succede nelle nostre scuole (non vedono quello di cui si parla, i testi, ma vedono il manuale che parla dei testi), quel ragazzo sente dire che la Costituzione è lunga, non conosce le finezze giuridiche che si nascondono dietro questo aggettivo, conosce la lingua italiana, e immagina chissà che pizza sia la Costituzione.

In realtà (anche se quello che ho davanti a me è un testo ben rilegato e pesa un po’), è un testo, se fate il conto, che equivale, al massimo, a tre articoli di Citati nelle pagine culturali della “Repubblica”, o forse a uno, cioè è un testo abbastanza breve: saranno meno di 30 cartelle dattiloscritte di 2.000 battute. Per raccontare “che cosa deve essere un Paese”, per usare la formula di Giorgio Napolitano, non quello che è, ma quello che deve essere, non è poi tanto lunga.

Rigida: uno si immagina che sia inamidata; invece rigida, per i giuristi (come altri meglio di me possono dire) significa, nel loro linguaggio,che non è modificabile con le procedure che si adoperano per le leggi ordinarie, ma richiede una particolare procedura per essere modificata.

Non ottriata: ottriata è parola sconosciuta direi – ho cercato di fare un calcolo – al 96 per cento circa della popolazione italiana (è un calcolo ottimistico). Ma perché non ottriata, che vuole dire? Perché, come per gli altri due aggettivi, il riferimento non è all’intrinseco (e chiedo scusa ai giuristi) della Costituzione, ma allo Statuto albertino. Lo Statuto albertino aveva poche cose da dire e quindi, effettivamente, è molto breve. Rispetto allo Statuto albertino la Costituzione è lunga, ma i giuristi annettono a lungo anche un altro significato: è lunga perché parla non solo di principi, ma anche delle architetture dello Stato. Lo Statuto albertino era ottriato, octroyé in francese, ossia concesso dal sovrano. Tutte le Costituzioni dei Paesi democratici sono non ottriate, non è una particolarità della nostra Costituzione: il riferimento è di nuovo lo Statuto albertino. In rapporto allo Statuto albertino, certo, la Costituzione italiana è rigida. Caspita, abbiamo visto cosa succede se la si vuole modificare, quante letture preliminari per proporre un testo di modifica, poi il referendum, e così via.

Naturalmente lo Statuto poteva essere revocato in qualsiasi momento e tra l’altro, in qualche modo, con l’avvento del regime fascista è stato tacitamente revocato; ne è stato fatto strame nel felice ventennio del fascismo. Perché ricordo queste cose? Per dire che invece la Costituzione è breve. È una Costituzione che nasce dall’espressione e dal filtro delle volontà delle grandi forze politiche e ideali rappresentate nella Costituente e tradizionali in Italia. Da questo punto di vista, il bellissimo discorso di Calamandrei cerca di spiegare quante voci del nostro patrimonio ideale nazionale che c’è (anche se ogni tanto dubitiamo che sussista) risuonano e si intrecciano nella fattura della Costituzione. E dunque la Costituzione meriterebbe anche dai giuristi aggettivi più cauti. È breve, 9.300 parole o poco di più, una trentina di cartelle dattiloscritte, e soprattutto grande cura nella scelta delle parole. Questo non è casuale. Voi sapete come sono andate le cose: i 75 hanno elaborato un testo,questo testo è stato portato in Aula (nel gennaio 1947, mi sembra) perché venisse discusso, se possibile migliorato, e parallelamente era stato chiesto a Pietro Pancrazi, che era un bravissimo letterato, molto stimato, all’epoca un “contemporaneista”, diremmo oggi, di migliorarlo stilisticamente. Poi il testo dei 75 e le proposte di Pancrazi sono arrivate in Aula, e l’Aula pochi mesi dopo ha approvato la Costituzione nella forma che conosciamo.

Nella tradizione italiana, prima e dopo la Costituzione, forzare la mano nella direzione del vocabolario di base, cioè del vocabolario di massima trasparenza, del vocabolario in cui si dice io vado e non io mi reco, si dice compito (tornerò un attimo su questa parola) e non ufficio (l’ufficio è un’altra cosa, è quello dove si va, o non si va, secondo Brunetta), forzare la mano nella direzione delle parole di più larga comprensibilità è una sfida alle abitudini non tanto del troppo bistrattato ceto politico, ma dell’assai poco bistrattato, e bistrattando invece, a mio avviso, ceto intellettuale. Ceto che soffre di mali tradizionali e individuati bene da Gramsci, il quale scriveva: gli intellettuali italiani sembrano dei neolalisti, quelli che, invasati dallo spirito, parlano lingue strane. Italo Calvino teneva la mano più leggera; diceva: c’è un tradizionale terrore semantico, terrore per le espressioni in cui la bottiglia si chiama bottiglia, e non contenitore di plastica di liquido acqueo o contenitore vitreo di sostanza vinosa, per dire fiasco di vino, come nell’esempio che faceva Calvino.

Allora, i Costituenti hanno vinto questo terrore e lo hanno, credo, voluto, saputo certamente vincere, lo volessero o no, e la percentuale che già ho ricordato (non vorrei seccarvi con i numeri), cioè che quasi il 93 per cento del testo della Costituzione sia fatto con il vocabolario di base della lingua italiana, col vocabolario di massima frequenza, col vocabolario che già nelle scuole elementari, per chi le fa, può essere noto bene, indica qualcosa di eccezionale in tutta la nostra tradizione. E non nella tradizione delle leggi di cui anche a me è capitato di parlare, ma Ainis ne ha parlato magistralmente in un libro intitolato La legge oscura, e ne ha parlato più volte la Corte costituzionale, sottolineando l’intrinseca oscurità di troppe leggi dello Stato italiano.

Questa percentuale è un fatto eccezionale rispetto anche alla prosa più limpida, più pensata per essere altamente comunicativa. Secondo fattore, un po’ buffo perché non ci pensiamo in quanto veniamo da una tradizione scolastica in cui, fino al 1979 (per fortuna qui ci sono molte persone sfuggite a questo regime linguistico di cui ora dirò, ma molti di noi ci sono stati dentro e lo hanno interiorizzato), nei programmi era scritta la seguente formulazione: il bimbo, anzi il fanciullo, se non ricordo male, dapprima farà componimenti semplici e chiari, poi via via più ampi e complessi. Scolpito dentro di noi, per fortuna non in voi Costituenti, c’era il principio che una cosa seria non può essere semplice e chiara, ma deve essere ampia e complessa.

I Costituenti per fortuna rifiutano d’istinto questo principio, quindi non solo scelgono le parole più trasparenti, per il possibile, ma scelgono di scrivere frasi esemplarmente brevi. Qui ci sono degli specialisti della scrittura controllata e vi possono dire che l’ideale sarebbe scrivere frasi con meno di 25 parole, se si vuole essere capiti. Se invece uno vuole abbandonarsi all’estro dell’arte fa quello che vuole, come Joyce, ma se deve scrivere un manuale d’istruzioni, un articolo di giornale, una lezione per l’università, che sia magari anche parlata, un testo di legge, sarebbe bene adoperare meno di 25 parole per frase. La Costituzione italiana è scritta con una media esemplare di un po’ meno di 20 parole per frase. Questi due elementi danno alla nostra Costituzione un grado altissimo di leggibilità.

 

Vittoria Gallina

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