I nativi digitali non sono tutti uguali
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Perché non indagare sulle caratteristiche “egocentriche” (in senso piagetiano) dei nativi digitali? È proprio su questo versante che essi divergono dal nostro pensiero e catalizzano ancor più il carattere liquido della nostra attuale e confusa società.
Si possono distinguere tre categorie tra i nativi digitali. Ricordo che la fascia di età che definisce i nativi digitali è quella dai 0 ai 12 anni, così come introdotta da Prenski nel 2000 e a partire dalla prima coorte del 1997 circa. Quindi, i nativi digitali più “anziani”, oggi, grosso modo, hanno circa 14-15 anni. Ne deduciamo, pertanto, che i nativi più anziani si sono iscritti alle scuole secondarie superiori per l’anno scolastico prossimo venturo.
Cosa ci dobbiamo aspettare da questa nuova “specie antropomorfica”?
Ebbene, le tre categorie che consideriamo le definiamo partendo dai dati di Paolo Ferri, “Nativi Digitali”, Mondadori 2011. Ferri riporta alcune elaborazioni fatte sui dati raccolti dall’OCSE, in particolare dal CERI (Centre for Educational Research and Innovation) di Parigi con la sua indagine sui “New Millennium Learners” attraverso un attento studio dell’impatto che le Tecnologie della Comunicazione e dell’Informazione (ICT) hanno e hanno avuto sui rilevamenti OCSE-PISA degli apprendimenti (il cui punteggio medio per la sufficienza è assunto con punti 500). Le risultanze dell’indagine portano alle seguenti conclusioni:
1. Il 28% dei nativi digitali ottiene una valutazione di 516 utilizzando le tecnologie digitali 2-3 volte la settimana
2. Il 28% dei nativi digitali ottiene una valutazione di 507 NON utilizzando AFFATTO le tecnologie digitali (non le usa mai, studia e comunica in modo tradizionale)
3. Il 44% di questa popolazione ottiene 499 utilizzando spesso, anche troppo le ICT
Su queste scale le differenze sono importanti. L’uso controllato e distribuito nei tempi e nello spazio delle ICT è vincente. I nativi digitali limitandosi a un “non uso” delle tecnologie non garantiscono una migliore prestazione dei loro apprendimenti. Lo stesso vale per chi le usa in modo continuativo.
Verrebbe da dire che “la virtù sta nel mezzo”, come in tutte le cose. Possiamo sostenere che questa sia una conclusione sufficiente?
Prima di elaborare delle riflessioni, riproduciamo un altro dato:
1. Il 37% ottiene 532 con l’uso delle ICT dai 5 anni in su
2. Il 27% ottiene 513 con l’uso delle ICT da 3 a 5 anni
3. Il 26% ottiene 479 con l’uso delle ICT da 1 a 3 anni
4. Il 10% ottiene 433 con l’uso delle ICT già dall’età di 1 anno
Questi dati sono interessantissimi. Nella prima infanzia del nativo digitale l’uso delle ICT ha un effetto “limitante” sugli apprendimenti. Sembra piuttosto vantaggioso il contrario, invece, e cioè che le ICT non debbano svolgere una funzione di rilievo nel suo ambiente. Che direbbe Piaget di questo dato? Lo sviluppo infantile del bambino è (sarebbe) condizionato dall’ambiente tecnologico? Ovviamente, i dati dicono di sì, ma sembra che l’efficacia dell’ambiente dipenda fortemente dalle nuove dinamiche che si sviluppano durante i primi anni tra il nativo e l’ambiente. Un contesto dove le ICT sono utilizzate con parsimonia sembra più duttile ed efficace ai fini dell’apprendimento, soprattutto, se l’interazione con il bambino durante i primi anni si limita a forme di comunicazione e dinamiche di apprendimento “lontane” dalle ICT.
Per comprendere, almeno qualitativamente, la complessità del problema ricordiamo la intrigante disputa culturale che si è sviluppata con i lavori di Piaget e Vygotsky.
Emulando il nativo digitale affidiamoci a Wikipedia.
“Piaget distingue due processi che caratterizzano ogni adattamento: ‘l’assimilazione’ e ‘l’accomodamento’, che si avvicendano durante l’età evolutiva. Si ha assimilazione quando un organismo adopera qualcosa del suo ambiente per un’attività che fa già parte del suo repertorio e che non viene modificata (p.es. un bambino di pochi mesi che afferra un oggetto nuovo per batterlo sul pavimento: siccome le sue azioni di afferrare e battere sono già acquisite, ora per lui è importante sperimentarle col nuovo oggetto). Questo processo predomina nella prima fase di sviluppo. Nella seconda fase invece prevale l’accomodamento, allorché il bambino può svolgere un’osservazione attiva sull’ambiente tentando altresì di dominarlo. Le vecchie risposte si modificano al contatto con eventi ambientali mutevoli (p.es. se il bambino precedente si accorge che l’oggetto da battere per terra è difficile da maneggiare, cercherà di coordinare meglio la presa dell’oggetto). Anche l’imitazione è una forma di accomodamento, poiché il bambino modifica se stesso in relazione agli stimoli dell’ambiente. Un buon adattamento all’ambiente si realizza quando assimilazione e accomodamento sono ben integrati tra loro. Piaget ha suddiviso lo sviluppo cognitivo del bambino in cinque livelli (periodi o fasi), caratterizzando ogni periodo sulla base dell’apprendimento di modalità specifiche, ben definite. Ovviamente tali modalità, riferendosi a una ‘età evolutiva’, non sempre sono esclusive di una determinata fase. La prima fase è nota come ‘fase senso-motoria’. Dalla nascita ai due anni circa questa fase è caratterizzata da riflessi innati (dalla nascita al primo mese), da reazioni circolari primarie (dal secondo al quarto mese), reazioni circolari secondarie (dal quarto all’ottavo mese), coordinazione mezzi-fini (dall’ottavo al dodicesimo mese), reazioni circolari terziarie (e scoperta di mezzi nuovi mediante sperimentazione attiva): dai 12 ai 18 mesi, ed infine la comparsa della funzione simbolica (dai 18 mesi in poi). Il bambino è in grado di agire sulla realtà col pensiero. La seconda fase è quella ‘pre-concettuale’. Va da due a quattro anni. L’atteggiamento fondamentale del bambino è ancora di tipo egocentrico, in quanto non conosce alternative alla realtà che personalmente sperimenta. Questa visione unilaterale delle cose lo induce a credere che tutti la pensino come lui e che capiscano i suoi desideri-pensieri, senza che sia necessario fare sforzi per farsi capire. Il linguaggio diventa molto importante, perché il bambino impara ad associare alcune parole ad oggetti o azioni. Con il gioco occupa la maggior parte della giornata, perché per lui tutto è gioco: addirittura ripete in forma di gioco le azioni reali che sperimenta (ad es. per lui è un gioco vestirsi e svestirsi). Imita, anche se in maniera generica, tutte le persone che gli sono vicine: le idealizza perché sa che si prendono cura di lui. Impara a comportarsi come gli adulti vogliono, prima ancora di aver compreso il concetto di ‘obbedienza’. Non è in grado di distinguere tra una classe di oggetti e un unico oggetto. Ad es. se durante una passeggiata vede alcune lumache, è portato a credere che si tratti sempre dello stesso animale, non di diversi animali della stessa specie. Gli aspetti qualitativi e quantitativi di un oggetto può percepirli solo in maniera separata, non contemporaneamente. Non è neppure capace di relazionare i concetti di tempo, spazio, causa. Il suo ragionamento non è né deduttivo (dal generale al particolare), né induttivo (dal particolare al generale), ma transduttivo o analogico (dal particolare al particolare). Ad es. se un insetto gli fa paura perché l’ha molestato, è facile che molti altri insetti che non l’hanno molestato gli facciano ugualmente paura. Nella ‘fase del pensiero intuitivo’, da quattro a sette anni, aumenta la partecipazione e la socializzazione nella vita di ogni giorno, in maniera creativa, autonoma, adeguata alle diverse circostanze. Entra così nella fase relazionale attiva. Secondo Vygotsky, Piaget è andato a cercare nell’analogia con la logica formale e matematica (contemporanea) la possibilità di dare un fondamento razionale alla psicologia. Egli si è rivolto alla logica formale perché con essa credeva di poter stabilire definitivamente il concetto di invarianza dell’oggetto, per eliminare così le rappresentazioni illusorie del soggetto. Non a caso la maggior parte delle sue ricerche si riferisce alla ricostruzione delle tappe evolutive del principio di conservazione (o invarianza) della quantità-sostanza-peso-volume degli oggetti. La matematica infatti possiede il più forte apparato di descrizione delle invarianti. Di qui il formalismo di Piaget: il suo pensiero è genetico solo in senso cronologico non ontologico, è classificatorio-combinatorio-meccanico, non concettuale-dialettico. Inoltre, secondo Piaget il legame che unisce tutte le caratteristiche specifiche della logica infantile è l’egocentrismo: ciò che interessa al bambino è la soddisfazione di piaceri, in antitesi al principio di realtà. Piaget avrebbe preso da Freud: a) l’idea che il principio del piacere preceda quello di realtà; b) l’idea che il piacere sia una forza vitale indipendente. Vygotsky invece afferma che lo sforzo per ottenere la soddisfazione di un bisogno e lo sforzo per adattarsi alla realtà non sono separabili né opponibili, altrimenti c’è patologia. Piaget sostiene che il gioco (immaginazione) è la legge suprema dell’egocentrismo fino a 7-8 anni. Vygotsky invece sostiene che la funzione primaria del linguaggio – nei bambini e negli adulti – è la comunicazione. Il primo linguaggio è quello sociale (globale e plurifunzionale); in seguito le funzioni si differenziano, cioè si egocentrizzano, permettendo allo sviluppo del pensiero e del linguaggio d’interiorizzarsi. In altre parole, ad una certa età il linguaggio diventa anche egocentrico, ma resta sociale, poiché l’egocentrismo rappresenta soltanto un’interiorizzazione di forme di comportamenti sociali. Nell’adulto c’è il linguaggio interiore (linguaggio egocentrico in profondità), che si sviluppa all’inizio dell’età scolare…”.
Il repertorio al quale si riferisce Piaget è per noi quella natura digitale, nativa nel bambino, codificata nella sua matrice culturale (vedi su Education 2.0 il mio “Lo tsunami dei nativi digitali”) che, pertanto, nell’accomodamento con il contesto, non lo induce a “forzature” o ad apprendimenti “non desiderati”. “Il suo piacere è anche il suo bisogno”; i suoi bisogni sono tanto reali quanto desiderati perché parte di una stessa realtà “originaria”, quella digitale.
Potremmo quindi sostenere che la fase senso-motoria e quella pre-concettuale si sviluppano nel bambino senza bisogno di dominio della realtà perché la realtà digitale è già parte del suo ambiente nativo. In questo senso non c’è alcun conflitto, come afferma Vygotsky, tra “lo sforzo per ottenere la soddisfazione di un bisogno e lo sforzo per adattarsi alla realtà” non c’è quindi patologia. Il nativo digitale ha uno sviluppo psicologico “integrato a priori con la realtà”, è per l’appunto nativo. L’egocentrismo del Piaget e la comunicazione di Vygotsky viaggiano entrambi nella realtà virtuale del “nuovo mondo” della tecnologia digitale (perché esso si respira prima che toccare), e in questo senso il “linguaggio nativo” è quello stabilito dai nuovi equilibri determinati dalle correlazioni intrinseche tra il bisogno di assimilare e quello di accomodare. Nello sviluppo del bambino nativo digitale la “realtà” esterna comunica con il linguaggio del “bit”, è intrinsecamente strutturata con il linguaggio base dell’informazione digitale, così da non opporsi al suo bisogno di indagare, di scoprire e di dominare l’ambiente. La comunicazione è spontanea e reversibile per l’unificazione dei linguaggi del bambino e dell’ambiente. Lo sviluppo non può essere cronologico perché la natura ipertestuale della comunicazione digitale assimila elementi del contesto che non hanno più bisogno di accomodamento. Anzi, nello sviluppo del pensiero intuitivo, il bambino stabilirà nuovi riferimenti dinamici e culturali estranei alla realtà adulta e quindi di rottura con il paradigma scientifico consolidato alla base dell’impianto del Piaget.
Non meravigliano i dati raccolti dal Ferri. Nella prima fase dello sviluppo, il bambino non ha bisogno delle tecnologie digitali perché sviluppa il suo percorso su quel che gli manca (sugli stimoli che l’ambiente gli pone) e per questo è incuriosito dagli aspetti non digitali (quelli fisici, emotivi…). Giunto intorno ai 5 anni è sufficientemente appagato da tutto ciò che non è nativo (non è più una zona d’ombra) e “comincia” ad aprire le sue native inclinazioni al più “facile” mondo della comunicazione digitale. Questo bisogno di equilibrio tra il suo egocentrismo “nativo” e il suo bisogno di “accomodamento” dipenderanno sempre dalla necessità di non collassare in uno dei due mondi al fine di evitare quelle patologie rilevate dai dati CERI.
Sarebbe interessante lo studio di un modello di sviluppo della psicologia del bambino in questo nuovo mondo, perché la tecnologia (e non solo quella digitale), oggi, definisce una matrice obbligata della comunicazione e del contesto che non si limita a semplici elementi del tutto (parti del tutto) ma alla natura intrinseca della socialità nel suo complesso (dall’uso di strumenti come il cellulare, il PC o la TV alla vita che si sviluppa con e tra diversi social network). Senza finire in “L’uomo ad una dimensione” di Marcuse (e la Scuola di Francoforte) o nel Grande Fratello del 1984 di Orwell – facili pensieri per un migrante digitale – sarebbe di grande aiuto indagare sulle caratteristiche “egocentriche” dei nativi digitali, perché è su questo versante che essi “divergono” dal nostro pensiero e catalizzano ancor più il carattere liquido della nostra attuale e confusa società.
* L’autore ringrazia il prof. Sergio Petrella e il prof. Maurizio Matteuzzi per lo scambio di idee avuto in corso d’opera.
Arturo Marcello Allega