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Scuola e formazione secondo il Censis

Pubblicato il: 12/12/2011 19:05:53 -


Il sistema formativo italiano nel Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese 2011. I punti critici in un quadro globale statico e confuso.
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Il 45° rapporto Censis non offre una interpretazione dei processi in atto nella società italiana, ma fotografa i danni di una triplice “insipienza” : 1) un debito accumulato che impedisce autonomia al sistema, 2) l’impreparazione di fronte a un attacco speculativo, che colpisce il sistema europeo nel suo anello debole, 3) la confusione e impotenza nel governare azioni di difesa e di rilancio dell’economia. Vergogna quindi, espressa con le parole di Cicerone, partim dolore, partim verecondia, per la rappresentazione, l’immagine del nostro paese di fronte agli altri, ma soprattutto di fronte a noi stessi, e il monito di san Tommaso, non ratio est mensura rerum sed potius e converso, come invito a riscoprire le virtù originarie, tornando alla realtà, perché questa, più che la razionalità, sembrerebbe capace di dare ordine a una crisi altrimenti ingovernabile. Un’analisi condotta col fiato sospeso, da qualcuno che si ferma a due passi da un baratro e cerca appigli, voltandosi indietro. Appare quindi difficile leggere isolatamente il capitolo relativo alla istruzione e formazione senza tener conto del quadro che il rapporto presenta anche su altri aspetti importanti: la volontà degli italiani di “assumersi una responsabilità collettiva” (il 57% degli italiani appare disponibile a rinunciare al proprio tornaconto per l’interesse generale, ma il 45% di questi sottolinea che la disponibilità è limitata “solo a vere emergenze”) e l’identità italiana come dimensione del senso della collettività (il 46% dei cittadini fortemente identificati dal fatto di essere italiani, il 31% legato al livello territoriale, comune o regione, il 15% aperto alla cittadinanza europea e/o del mondo e solo uno scarso 8% di solipsisti, come vengono qui definiti); il deficit di classi dirigenti, dal 2007 al 2010 i vertici decisionali si riducono dal 2,4% al 2% degli occupati, tra questi è scarsa la presenza delle donne (un quinto del totale) e degli under 45 anni, quota che tende a decrescere; il progressivo declino della produttività nel corso di un decennio.

Il sistema formativo appare fuori centro perché è la natura stessa del processo formativo che non può non ancorarlo a una ipotesi complessiva di sviluppo di una comunità, capace di riconoscersi nell’oggi e nella prospettiva futura delle nuove generazioni, ma è proprio questa che manca, mentre poco leggibili, nell’arco temporale di un anno, appaiono gli esiti dei recenti provvedimenti assunti dal precedente governo. Si generalizza l’iscrizione alla secondaria superiore, ma solo il 75% dei diciannovenni consegue il diploma (nel 2010 i 18-24enni con la sola licenza media passano dal 19,2% al 18,8%, ma l’Italia è ancora lontana dall’obiettivo europeo di portarli al 10% e le differenze territoriali sono molto evidenti). La dispersione scolastica, soprattutto nel biennio della secondaria superiore e in alcune zone del paese, presenta caratteri di emergenza , specie se si osserva il fenomeno degli early school leavers negli istituti professionali e nel sud. L’abbandono nel biennio della secondaria superiore (il segmento terminale dei dieci anni di istruzione obbligatoria) passa dal 15,6% al 16,7% dall’anno scolastico 2006-2007 al 2009-2010; solo gli istituti tecnici vedono una riduzione dell’abbandono, che cala di un punto percentuale (dal 17,6 al 16,6%) mentre nei licei si passa dal 10,3 all’11,4% e nei professionali dal 22,9 al 23,7% (nel sud-isole dal 29,7 al 30%). La disomogeneità di questo dato è confermata da un’analisi più approfondita che registra eventuali sinergie e coordinamenti di diversi soggetti, istituzionali e non, attivi nella prevenzione delle varie forme in cui il disagio giovanile si manifesta: gli enti locali, le famiglie, il terzo settore e le parrocchie offrono supporto all’attività delle scuole, anche se in modo discontinuo e non omogeneo sul territorio, mentre del tutto minoritario è l’apporto degli organismi di formazione professionale e delle imprese. Laddove gli interventi sembrano produrre risultati, il recupero sembra essersi realizzato su soggetti a rischio, che sono già riusciti a superare l’ostacolo della prima classe del biennio , che rimane lo snodo in cui cadono i ragazzi con maggiori difficoltà e che vivono nelle zone dello svantaggio sociale e culturale del paese.

La filiera dedicata alla professionalizzazione resta la struttura più debole del sistema; se è vero infatti che nel 2010-2011 gli istituti tecnici statali hanno visto un incremento di iscrizioni dello 0,4%, i professionali perdono progressivamente iscritti e vedono crescere l’abbandono, mentre i percorsi triennali di istruzione/formazione professionale non attirano i giovani (solo il 6,7% degli iscritti al percorso di studi del secondo ciclo di istruzione sceglie questa opzione formativa). Il 65% dei diplomati si iscrive all’università, ma nel secondo anno di corso il 20% abbandona; del resto il tasso di occupazione dei laureati in Italia è del 76,6%, contro la media dell’Europa a 27 che è dell’82,3%. Gli esiti della crisi sono evidenti: la richiesta di giovani laureati tende a diminuire, i giovani sono difficilmente chiamati a coprire ruoli di responsabilità e, al primo impiego, il 49,2% dei laureati e il 46,5% dei diplomati risultano sotto inquadrati.

L’importanza di interventi educativi e formativi per tutta la vita e in particolare in età adulta è un capitolo importante delle strategie europee volte alla riqualificazione del capitale umano e alla capacità di reagire di fronte alla crisi. Per l’Italia si tratta di recuperare i bassi livelli di scolarità della popolazione adulta e di riallineare gli interventi a quanto accade negli altri paesi. Il trend positivo nella partecipazione che si era manifestato fino al 2009 si è arrestato, siamo fermi al 9,1% di popolazione 25-64 anni partecipante all’Eda contro il 15%, che l’Europa 2020 indica come obiettivo per tutti i paesi. Questo fatto dipende dalla incertezza del quadro normativo di riferimento; dal 2009 l’iter relativo alla approvazione delle “Norme generali per la ridefinizione dell’assetto organizzativo didattico dei centri di Istruzione Degli Adulti (IDA ex EDA), compresi i corsi serali” è fermo, il provvedimento tende a limitare il ruolo delle istituzioni scolastiche alla erogazione di titoli di studio, alle Regioni conferma la competenza esclusiva della formazione professionale mentre alla possibilità di attivare convenzioni con Enti locali e altri soggetti è affidato lo sviluppo di attività di liberal education, che, negli anni, ha rappresentato un segmento vivace e utile di sperimentazioni promosse e gestite dalle istituzioni scolastiche, che spesso sono state capaci di intercettare e ri-orientare i bisogni formativi degli adulti; l’incertezza quindi scoraggia una utenza italiana e straniera che avrebbe bisogno, proprio oggi, di trovare offerte trasparenti e flessibilità di percorsi. L’università fa registrare un dato positivo in relazione all’aumento dei finanziamenti esteri, che gli atenei hanno raccolto nel triennio 2008-2010, mentre l’esperienza di mobilità per stage coinvolge pochi studenti italiani della istruzione/formazione superiore (3 punti percentuali sotto la media europea); la quota invece di giovani, che hanno effettuato uno stage entro la VET (Vocational Education and Training), è superiore alla media europea. Le interviste condotte dal Censis evidenziano tuttavia come la mobilità, per realizzarsi, deve essere finanziata in modo adeguato e che il ricorso al risparmio personale e all’intervento delle famiglie è ancora estremamente elevato, e questo accade in molti paesi europei e non solo in Italia.

Vittoria Gallina

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