Tirocini formativi, quali obiettivi?
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Nuovi percorsi di formazione inziale e vecchi sistemi di reclutamento per i docenti.
Spesso nel sistema scolastico/formativo italiano si confonde serietà di una proposta di istruzione/formazione con selezione al momento dell’accesso, ci si preoccupa più della reazione dei Tribunali Amministrativi Regionali (preoccupazione peraltro più che giustificata), invocata e agita da parti in causa le più diverse e spesso in contrasto, che del merito delle questioni. Ho apprezzato molto il tono pacato dell’articolo di Giunio Luzzatto pubblicato su Education 2.0 (“Tirocinio Formativo Attivo, un decollo parziale e difficile”) nei giorni scorsi perché, mettendo in fila tutte le esigenze presenti alla istituzione dei TFA (per semplificare il garbuglio di aventi/non aventi/poco aventi diritto passati presenti e futuri), pone la questione di fondo: cosa si impara, cosa si insegna in questi corsi, per quale figura professionale e per quale scuola? I “soggetti” che sembrano uscire vincenti in questa nuova normativa sono: l’autonomia dell’università, intesa proprio come assenza di regole, linee di indirizzo ecc. e la eternizzazione delle graduatorie, mai esaurite e, a quanto pare, sempre rinnovabili.
Auguriamoci che le università sappiano riempire di contenuti e scegliere gli insegnamenti per il meglio, respingendo logiche legate ad aggiustamenti di cattedre e di “riempimento” dell’orario dei docenti, ma, anche se questo fosse, quali i sillabus, gli orientamenti culturali e pedagogici di questi percorsi? Ogni università procederà per suo conto, utilizzando risorse ed esperienze proprie (speriamo le migliori da mettere in campo), ma senza godere di un qualche confronto con chi oggi è impegnato nella stessa impresa e neanche con coloro che pure qualche esperienza, proprio sul tema, hanno avuto occasione di farla. Sarà interessante alla fine verificare, se la congiunzione degli astri sarà riuscita a produrre coerenza. Quello che emerge come dato comune, perché previsto dalla normativa, è l’impianto rigidamente gerarchico del nostro sistema formativo: l’università prepara le teste, con teorie e dottrina disciplinare/pedagogica, la scuola “accoglie” il momento della applicazione. La difficoltà, che le SISS avevano evidenziato, nel non riuscire a conciliare statuti disciplinari e ricerca e prassi pedagogica, non viene in alcun modo affrontata, lo schema proposto è lo stesso: lezioni, che coprono le discipline relative alle classi di concorso, sempre molto settorializzate e spezzettate, cui si affiancano interventi prodotti da docenti dell’area pedagogica, la professione del docente scaturirà da una alchemica mescolanza, attraverso il passaggio dentro le scuole.
Il problema non è di poco conto: gli studi recenti sugli esiti formativi e occupazionali dei corsi universitari (basti citare il volume “I nuovi laureati”, Fondazione Agnelli 2012) evidenziano in modo sufficientemente chiaro la scarsa trasparenza del “prodotto” che esce dalle nostre università rispetto al mercato del lavoro e al mondo delle professioni; questa sarebbe una delle cause, certo non la sola, della scarsa spendibilità del titolo di studio post diploma nel nostro paese e quindi la giustificazione per collocazioni poco gratificanti e scarsamente premianti dell’impegno di studio. Ma l’impianto del TFA (come del resto a suo tempo molte delle difficoltà delle SISS) dimostra che la stessa università non sembra capace di dialogare con se stessa e che, non riuscendo ad aver chiaro quali fondamenti solidi abbia prodotto la laurea triennale (ma tra gli aspiranti TFA saranno comunque presenti laureati dei percorsi quinquennali e quant’altro!), sui quali innestare percorsi professionalizzanti per futuri docenti, ripropone insegnamenti disciplinari cui affianca l’intervento pedagogico. Tra l’altro il paradosso è ancora più evidente se si tiene conto che questi percorsi professionalizzanti restano a margine della didattica e della ricerca universitaria, in un limbo un po’ costoso sicuramente per coloro che vi aspirano, in cui orare et laborare, secondo le parole di San Benedetto, in attesa di… un concorso? di una graduatoria ad hoc? di una riserva di posti? Il tutto è un po’ strano, perché i “formandi” del TFA pagano per entrare nel corso, operano nella scuola che li accolgono (o sono solo auditori?) e poi, sostenuta la prova finale, si trovano al punto di partenza, con un certificato in più. Francamente un po’ poco, forse sarebbe convenuto loro tentare la carta del concorso, se poi ci sarà effettivamente, ma non possedendo l’abilitazione, non potrebbero accedervi, quindi comunque dovranno passare per questa porta. La discussione su tutte queste questioni è vivace e precisa (indire.it/adi/, ilsussidiario.net), ma resta tra interessati e specialisti.
L’occasione di ragionare sulla professione docente come una carriera normale, in cui si viene reclutatati, non perché invecchiati in graduatoria, ma perché capaci di qualificarsi e impegnarsi in percorsi di lavoro definiti, articolati in vista di bisogni specifici e molto diversi nelle diverse scuole e con diversi studenti, resta una irraggiungibile chimera. Dispiace notare come la direttiva europea “Make the profession of teacher/trainer more attractive” (Education and Training 2010. Key message from the commission to the council :The success of the Lisbon strategy hinges on urgent reform) che invita ad aprire ai giovani, rendendo “attrattiva” questa professione, non è neanche disattesa, perché è del tutto ignorata. Eppure questa volta il fatto di iniziare da insegnamenti scientifici (perché queste sono le classi di concorso più vuote) poteva permettere qualche spericolata innovazione nella formazione di docenti, che hanno il compito di intervenire su aspetti cruciali della formazione dei giovani. Resta l’auspicio che poi, nei fatti, le autonome scelte delle università producano qualcosa di nuovo e che si possa avere una riflessione ex post, visto che prima c’è stato ben poco.
Vittoria Gallina