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Istruzione, formazione professionale e titolo quinto della Costituzione

Pubblicato il: 05/05/2014 13:17:56 -


Partendo dal titolo quinto della Costituzione si possono rivedere positivamente l’istruzione e la formazione professionale. La proposta si sofferma sulle competenze statali e regionali in materia, nell’ottica di un maggior successo formativo dei giovani.
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Dall’analisi della regolarità, dei ritardi e tassi di passaggio degli alunni nei vari gradi scolastici si ricava che gli anni più critici sono i primi due della scuola superiore. Le percentuali dei ritardatari, degli abbandoni e tutti gli altri dati relativi alla carriera scolastica sono estremamente diversificati tra licei, istituti tecnici e professionali. Non sembra risolutivo nemmeno il travaso dall’istruzione alla formazione professionale, che costituisce ancora la “seconda opportunità”, perché l’abbandono si manifesta anche in quest’ultimo segmento formativo.

I dati che a questo riguardo provengono dall’ultimo monitoraggio dell’ISFOL vedono in crescita la domanda per un percorso triennale in entrambi i sistemi: statale e regionale. Sempre secondo tale analisi oltre la metà dei qualificati sceglie di proseguire verso il quarto anno, anche in considerazione del fatto che la qualificazione rilasciata con il “diploma professionale”, nel quadro dell’European Qualification Framework, è di livello formalmente equivalente al diploma di maturità; e ciò fa il pari con il più ampio dibattito sull’uscita a 18 anni dal secondo ciclo. Da qui si può accedere direttamente ai percorsi superiori non accademici.
Le ripetenze nel primo anno non fanno che aggravare la situazione, perché anche i nuovi arrivi spesso manifestano carenze e problematicità. Se come alcuni ritengono, è dalla soddisfazione della vocazione lavorativa che i ragazzi traggono la motivazione per sostenere le esigenze professionali con competenze di carattere generale, varrebbe forse la pena diversificare radicalmente gli ambienti formativi. Sta di fatto che quella attuale è una situazione ibrida che non è in grado di verificare né se è l’orientamento centrato sulla persona che aiuta a crescere e a scegliere, né se quello centrato sulla performance precoce riesce e in quanto tempo a far acquisire quelle competenze generali pur necessarie al lavoro.
Le analisi sugli apprendimenti e sull’occupabilità danno spesso risultati contrastanti, ma quest’ultima mostra una sostanziale parità tra qualificati e diplomati. Secondo l’ISFOL sembra che il percorso negli istituti professionali sia troppo teorico e impegnativo, mentre nei corsi regionali – più richiesti – anche per gli studenti in uscita dalla scuola di primo grado come prima scelta, non ci siano abbastanza risorse per rispondere alla domanda.

Pur mantenendo l’occhio puntato su un mix d’attività didattiche tra competenze generali e professionali, si potrebbe vedere se, prendendo a riferimento l’intero biennio, si riesca a riprendere le trame di tale intreccio con tempi e modi più distesi e più efficaci, ancorché sostenuti da una forte spinta all’innovazione didattica, assicurando un maggior successo formativo al termine dell’obbligo d’istruzione, con la relativa certificazione delle competenze, prevista dall’ordinamento, da utilizzare in modo più qualitativo e quindi mirato verso i rapporti con l’indirizzo professionale e le aziende.
Il contenitore “istruzione e formazione professionale” indicato in modo unitario dal “titolo quinto” della Costituzione, anche nella riforma attualmente in discussione, di fatto è composto da opportunità fornite in modo separato dagli istituti professionali di Stato quinquennali e dai centri di formazione regionali prevalentemente triennali, quindi far quadrare questo rapporto è molto complicato e si ripercuote in maniera molto diversa sul successo formativo di giovani già a forte rischio di dispersione.

Le risorse finanziarie e di organico impegnate per far ripetere uno studente su 5 non sono trascurabili, potrebbero essere meglio utilizzate per coltivare aspirazioni e attitudini di ogni ragazzo/a, compresi percorsi di eccellenza per i migliori, e costruire su questa base un’idea diversa di scuola. Nessuno, infatti, in linea di principio può essere abbandonato a se stesso, perfino dopo due o tre bocciature.
Il diritto all’istruzione per tutti non sembra quindi realizzato e, i risultati qualitativi, come indicato dalle ricerche OCSE-PISA, non appaiono comunque eccellenti: il rigorismo non genera qualità e non è da escludere che la bocciatura costituisca più un elemento di disincentivazione e di frustrazione che una spinta a migliorare.

Un altro elemento in questo iter di rallentamenti e uscite dal sistema è la perdita sociale che avviene quando le potenzialità dei soggetti non sono colte e incoraggiate, ma negate e non utilizzate.

Una proposta d’intervento
Istruzione e formazione professionale: un nuovo contenitore non può ospitare un vecchio contenuto, una didattica più moderna che va a infrangersi contro un esame antiquato e legato a una somma di conoscenze. Si ha il coraggio di provare un’altra strada? Più europea? Che mantenga i diritti fondamentali delle persone e l’efficacia delle domande d’apprendimento, ma che apra alla flessibilità dei percorsi e alla qualità degli ambienti formativi.

Si parte dal principio dell’equivalenza delle conoscenze (a risultati analoghi si può pervenire mediante strade diverse) che vede gli standard definiti negli assi culturali indicati dal DM 139/2007 per quanto riguarda le competenze generali (con riferimento a quelle europee), alle quali si aggiunge l’asse professionale i cui standard sono indicati negli accordi nazionali e regionali per le qualifiche.
Il team educativo sarà composto di un docente per ogni asse, due per quello dei linguaggi, uno di lingua italiana e uno di lingua straniera: totale 6 docenti. Nella scuola sarà disponibile una figura di sostegno psicologico e per l’orientamento.
La valutazione sommativa, tranne casi eccezionali di uscite o di rientri, viene rinviata al secondo anno, per favorire la realizzazione di piani formativi personalizzati e un’organizzazione didattica per fasce di livello (nel primo anno i gruppi di livello saranno prevalenti, mentre nel secondo anno residuali), favorendo anche gruppi interclasse. Si dovrà arrivare così a una scelta adeguata alla fine del secondo anno.

La didattica praticherà rigorosamente un lavoro per competenze, in modo da arrivare, alla fine del biennio, alla loro certificazione e all’attribuzione dei crediti, sia per la prosecuzione nel sistema scolastico-formativo, sia per l’ingresso nel mondo del lavoro. Il libretto dello studente (portfolio delle competenze) innescherà così la capitalizzazione e la documentazione dei percorsi e delle esperienze lavorative, fino a introdurre il principio della formazione continua e ricorrente.

Nel primo anno si darà spazio a una didattica laboratoriale anche attraverso la compresenza di docenti, sia di materie generali sia professionali, eventualmente integrati da esperti aziendali. Nel secondo anno si potrà partire con i tirocini nelle imprese, fin dall’inizio dell’anno, costruendo il curricolo sull’esperienza lavorativa, attraverso una programmazione modulare.

È confermato da diverse esperienze, soprattutto quelle degli stage, che “in situazione” dove sia possibile un coinvolgimento attivo, migliora la motivazione, l’autostima, ecc., ma il lavoro didattico deve mettere in relazione questi contesti con i tempi e i modi d’acquisizione delle competenze generali e trasversali, in modo che il risultato sia prodotto in un’unica esperienza efficace e non facendo percepire il distacco tra apprendimenti teorici, formali e pratico-funzionali, dentro e fuori dalla scuola. È nota, altresì, la difficoltà di passare dal gesto alla parola e dall’azione alla riflessione.

Una valutazione più descrittiva del processo d’apprendimento (valutazione autentica), condivisa tra i soggetti che lavorano con i ragazzi, nei diversi contesti, i crediti riconosciuti (il bicchiere mezzo pieno) per proseguire nella scuola e nel lavoro potrebbe spingere gli alunni stessi a una maggiore responsabilizzazione/autovalutazione.
Andrà realizzata la documentazione dell’esperienza al fine capitalizzare i risultati degli apprendimenti, ma anche per seguire il trend delle qualifiche e lo sviluppo delle attività sul territorio.

Conclusione
Sarebbe sbagliato limitare l’intervento proposto alle situazioni di maggiori difficoltà, ne risulterebbe una “scuola per gli ultimi”. Gli standard – di cui al citato decreto – sono stati elaborati per l’innalzamento dell’obbligo d’istruzione in tutti gli ordini di scuola. È giusto dunque invocare uno sforzo comune: le bocciature, gli insuccessi, l’emarginazione sono presenti in ogni indirizzo, anche perché, dove ci sono studenti più “forti” si chiede di più e bisogna dare di più senza utilizzare questo come strumento di selezione, altrimenti la scuola diventa davvero iniqua, una scuola a due velocità: quella dei “normali” e quella degli “altri”.
Se si possa dare “tutto a tutti” fa parte di un dibattito di antica data, acceso soprattutto quando si trattava di mettere su un piatto della bilancia l’uguaglianza tra gli allievi e sull’altro la scuola “comprensiva”.
Oggi la dispersione e la polarizzazione delle “utenze deboli”, in particolari indirizzi soprattutto di carattere professionale, segnalano che a tutti non si può dare tutto allo stesso modo, con particolare riferimento a un curricolo enciclopedistico d’ispirazione umanistica.
Nell’istruzione/formazione professionale c’è un impianto “laboratoriale” che deve mantenere il principio d’unitarietà della formazione, tra competenze generali e professionali, valorizzando la “pluralità delle intelligenze”.
Sono dunque l’efficacia e l’organizzazione della didattica il valore aggiunto che evita la discriminazione tra condizioni sociali e apprendimento, sostenute da una forte azione di orientamento.
La riforma costituzionale ribadisce la presenza di un indirizzo all’insegna della congiunzione tra istruzione e formazione professionale: è matura la possibilità di un intervento che superi il dualismo tra Stato e Regioni, con un’attenzione particolare agli accreditamenti di strutture private, associative o delle categorie produttive.
Dalla Costituzione dunque un indirizzo alla politica di dirimere finalmente la questione di un unico governo del settore, quello regionale, con un’azione di coordinamento e di vigilanza sui risultati da parte del nuovo Senato delle autonomie, con poteri d’intervento legislativo e di sussidiarietà verticale.
È noto che il regionalismo spinto ha portato frammentazione e difficoltà di comunicazione tra i sistemi regionali e le indicazioni europee. Un federalismo equilibrato necessita di una Camera delle Regioni; la Conferenza Stato-Regioni non basta più, c’è bisogno di una regolazione complessiva del sistema nazionale/federale, senza tuttavia tornare al centralismo ministeriale.
La proposta di revisione costituzionale attualmente in discussione presenta, infatti, una certa ambiguità sulle funzioni del nuovo Senato, che sembra spingere verso le autonomie e l’attuazione del titolo quinto invece sembra rinforzare il modello centralistico statale. Si arriverà a chiarire il tutto se, oltre alle strutture, si metterà mano alla revisione delle competenze statali in materia d’istruzione e di formazione, che aspettiamo fin dal 1998.

Gian Carlo Sacchi

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