Crisi e impatto sulla spesa pubblica in Europa: lo speciale di “Scuola democratica”
L’analisi dell’impatto della crisi economica negli investimenti sull’istruzione è il tema dello special issue di “Scuola democratica” a cura di M. Paci, che si focalizza sui tre tipi di politiche educative ed economiche attuate in Europa. La recensione e le riflessioni di Vittoria Gallina.
L’abitudine a seguire la produzione d’indicatori, che grandi organismi internazionali forniscono su problemi scottanti e di grande attualità, consentendo anche prospettive diacroniche utili per capire cosa ci passa sotto gli occhi, talora porta a perdere di vista importanti questioni di teoria sociale e politica che, proprio nei momenti difficili, dovrebbero consentire di non smarrire alcuni fili conduttori e a costruire qualche idea per il futuro.
Il recente Focus Ocse Education Indicators (n. 18) “What is the impact of the economic crisis on public education spending?” analizza l’impatto della crisi economica sulla spesa pubblica per l’educazione e descrive questa situazione: gli effetti della crisi finanziaria del primo decennio del secolo hanno prodotto “tagli significativi nella spesa per l’istruzione nella maggioranza dei paesi Ocse”, anche se in alcuni tra il 2009 e il 2010 il PIL è aumentato, in un terzo di questi la spesa per l’istruzione è stata ridotta; la “domanda d’istruzione e formazione è in aumento” proprio mentre l’austerità continua a ridurre la spesa per l’istruzione, le istituzioni scolastiche quindi dovranno fare di più con meno risorse”.
La conclusione è: mentre da un lato si conferma che l’istruzione e la formazione sono un’assicurazione contro la crisi, la politica dei tagli continua a penalizzare il settore. È il solito problema della coperta troppo corta per corpi sempre più lunghi?
Lo special issue di “Scuola Democratica” (n. 3 settembre-dicembre 2013) curato da Massimo Paci affronta il tema del rapporto Education/Welfare e ripercorre il nodo problematico affrontato dagli studi relativi ai sistemi nazionali d’istruzione e ai sistemi nazionali di welfare, studi che si sono sviluppati in parallelo senza quasi connettersi, evidenziando una sorta di distanza reciproca.
Gli approfondimenti teorici presentati nell’issue intendono superare le distanze e stabilire un ponte, ricollegandosi al dibattito che si è aperto, a livello europeo, attorno al passaggio da un welfare passivo e assistenziale a un welfare attivo che dia largo spazio all’education e si basi sul concetto d’investimento sociale. L’issue si sviluppa intorno a tre testi.
1. Il primo di Nathalie Morel, una dei principali sostenitori a livello internazionale del nuovo approccio, nel suo saggio, “A social investment strategy for the knowledge-based economy”, di approccio neo-liberista pone l’accento piuttosto sulle differenze che sulle consonanze. I dati presentati dalla Morel suggeriscono che solo i Paesi nordici hanno sviluppato in modo compiuto politiche che possono essere definite di “investimento sociale”, in altri casi poi l’abbandono delle politiche di assistenza sociale e di sostegno del reddito ha provocato un aumento della povertà.
Insomma, benché patrocinata dalla UE, la strategia dell’investimento sociale non è ancora riuscita ad affermarsi e a distinguersi pienamente dall’approccio neoliberista.
Una serie di discussioni, più che commenti, al saggio della Morel (A. Ciarini ed E. Pavolini), rivalutano l’idea (il riferimento è Keynes), che le politiche dell’offerta, che agiscono soltanto dal lato del lavoro (della sua formazione e della sua mobilità), non sono destinate a conseguire effetti di riduzione delle disuguaglianze e della povertà, se non sono accompagnate da politiche a sostegno della domanda di lavoro e della crescita dell’occupazione.
2. Il secondo testo, la non intervista di Gosta Esping Andersen (“Interazione tra welfare e education: effetti sull’uguaglianza delle opportunità”), pone la necessità di sviluppare analisi comparative per verificare se esiste una corrispondenza tra i sistemi nazionali di education e quelli di welfare, e misura il grado d’integrazione tra questi due settori di policy, in termini di risultati redistributivi e di mobilità sociale.
L’autore documenta – sulla base di analisi statistiche a livello internazionale – che un fattore molto importante per diminuire le diseguaglianze assai pronunciate sulle opportunità educative e favorire il successo scolastico delle classi sociali inferiori è l’educazione pre-scolastica (come la nostra scuola dell’infanzia) e quella veicolata attraverso forme di “childcare” (come i nostri asili-nido).
Sull’argomento nei loro commenti intervengono in modo adesivo, ma anche critico, ancora Pavolini e Cerea, il primo riflette sulle conseguenze negative che si possono determinare sulla qualità dell’offerta a seguito di un’estensione puramente quantitativa dell’intervento di “childcare”, l’altra segnala il rischio che questo intervento di policy sulla prima infanzia nella prospettiva del “social investment welfare state” ponga al centro non il bambino, ma l’adulto-lavoratore di domani, con il pericolo di una sottovalutazione dei bisogni e dei diritti del bambino di oggi.
3. Il tema della comparazione tra i sistemi nazionali di welfare e di education torna nel dibattito a più voci sul terzo testo di Torben Iversen e John D. Stephens (“Partisan Politics, the Welfare State, and Tree Worlds of Human Capital Formation”). Gli interventi di L. Benadusi, M. Ferrera e M. Paci discutono sui tre “mondi di formazione del capitale umano”.
Il primo è quello socialdemocratico nordico, che presenta una combinazione di alta spesa pubblica sia per il welfare sia per l’education, con evidenti esiti redistributivi.
Il secondo “mondo”, quello “corporativo” costituito dai paesi europei continentali prevalentemente di governo cristiano-democratico, presenta un livello di spesa alto per il welfare, ma medio per l’education, con effetti redistributivi inferiori a quelli dei paesi socialdemocratici.
Infine il “mondo liberale”, proprio dei paesi anglosassoni (in primis Stati Uniti e Inghilterra) in cui la spesa pubblica per il welfare è bassa, ma quella per l’education è a un livello medio, perfino superiore a quella dei paesi cristiano-democratici se si considera la presenza di una consistente spesa privata per la “higher education” (che però va a vantaggio soprattutto dei ceti sociali superiori). Il “vocational training” qui è debole, così come la “preschool childcare”.
Il saggio di C. Agostini riprende e attualizza l’analisi comparativa della spesa per istruzione e per welfare nei tre suddetti gruppi di paesi cui aggiunge il gruppo sud-europeo, comprensivo dell’Italia. Dal 1995 al 2007 per il nostro Paese la quota della spesa sul PIL appare sostanzialmente stazionaria in entrambi i settori, quella dei paesi scandinavi flette ma rimane superiore a tutte le altre, quella dei paesi anglosassoni aumenta nell’istruzione ma diminuisce nel welfare, mentre i paesi continentali si mantengono in posizione intermedia.
Nello studio degli effetti di questi modelli L. Benadusi introduce un nuovo punto di vista (competenze acquisite dai quindicenni che vivono nei diversi “mondi”) e ricorre agli indicatori presentati dalle indagini PISA; in questo modo conferma la preminenza in termini di equità del gruppo socialdemocratico che è all’apice anche nelle performance medie (su questo terreno però raggiunto dal gruppo anglosassone), mentre si lascia alle spalle il gruppo continentale e ancor più l’Italia.
La nostra posizione, come mostra il saggio di Pattarin, è debole anche sul terreno della “vocational education”, dove invece eccellono la Germania e i Paesi che si sono conformati al suo modello duale.
M. Ferrera si ferma a riflettere sul ruolo dell’Europa nella formazione del capitale umano, quale si è andato concretizzando a partire dagli anni Novanta: processi di coordinamento avviati dall’Unione, processo di Bologna, processo di Copenaghen e processo basato sul “metodo aperto di coordinamento” (MAC-IF) per l’istruzione e la formazione. L’Europa si muove verso la costruzione di un’area europea, basata su standard e pratiche omogenee, mutuo riconoscimento e libera circolazione. Il modello complessivo preso come “benchmark”, secondo Ferrera, è quello nordico (e in parte tedesco): istruzione di base, a cominciare dalla prima infanzia, per assicurare competenze generali; canali di formazione tecnico-professionale per creare competenze più specifiche; “passerelle” tra i due ambiti.
In conclusione, ogni futura analisi comparata tra i paesi europei in questo campo non potrà fare a meno di considerare l’Unione Europea tra i suoi attori decisivi.
Massimo Paci, muovendo sempre da Iversen e Stephens, pone il problema dei fattori che possono aiutare a comprendere la strutturale incapacità di riforma e di razionalizzazione, che contraddistingue, sia il welfare sia l’education; si sofferma sul caso del nostro Paese chiamando in causa il ruolo del sistema politico-istituzionale, con particolare riferimento al sistema elettorale e al procedimento legislativo parlamentare. Un sistema elettorale di tipo proporzionale e un procedimento legislativo che permette ampi varchi all’intervento di veto o di condizionamento da parte di vari attori (correnti di partito, altri interessi organizzati interni o esterni alla coalizione di governo) costituiscono fattori di freno o di deviazione dei processi di riforma.
Questi sono solo alcuni dei molti spunti dello special issue, che lungi dal presentare astratti esercizi teorici, fornisce un contributo molto utile alla lettura di quello che sta accadendo.
Vittoria Gallina