Licei del nostro tempo
Orrore, per Gentile, il Liceo è diventato “scuola di massa”. I ragazzi che vi affluiscono certamente sono quelli con i migliori voti dalla scuola media (questo purtroppo è “l’orientamento” che ci ritroviamo), ma non hanno più nulla in comune con i giovani di qualche anno fa.
A quanto pare, l’emanazione sia pure informale delle Indicazioni per i Licei, sta dando luogo a un dibattito serrato e anche vivace tra diversi esperti e osservatori. Non voglio in alcun modo sminuire la passione e la competenza di quanti si misurano senza economia di colpi (culturali, si intende), ma ho l’impressione che tutta questa agitazione resti largamente estranea al mondo delle scuole.
Non valutare il contesto in cui cade questa discussione e i provvedimenti governativi (tali sono sino a oggi le indicazioni), significa correre il rischio di non incrociare neppure l’attenzione di quella parte significativa di docenti che non intende comunque rimanere ai margini del processo che si è aperto.
Qual è dunque il contesto?
La scuola avverte una evidente marginalità nelle scelte politiche; in quelle del governo, in cui è sempre più lampante la centralità del carattere economico dei provvedimenti, quelle dell’opposizione che sta letteralmente pensando ad altro. Sono in gioco i sindacati della scuola, certamente, ed essi, sia pure nelle evidenti differenziazioni che ne minano la capacità di mobilitazione e consenso, sono ovviamente assorbiti dalla gestione non semplice di una dolorosa fase di contrazione dell’organico. Costretti a giocare in difesa, anche per effetto di una crisi generale durissima di cui i docenti sono consapevoli, rappresentano le difese ma non una spinta verso nuovi obiettivi. Le Regioni, che pure potrebbero svolgere un ruolo molto importante, stanno ancora definendo i propri organi di governo. Non hanno ancora voce, si vedrà, ma certo non sarà la stessa dopo le ultime elezioni regionali.
Anche le scelte più di fondo dei provvedimenti (i Regolamenti non ancora definitivi), non concorrono a smuovere le acque. Per i Licei, in particolare. Abbiamo da più parti evidenziato l’evidente continuità con il passato: nella durata dei corsi, nella struttura del canale secondario, nella struttura dei percorsi. E questo, io credo, rappresenti il paradosso più clamoroso.
Si è ricercata una continuità con una scuola che non c’è più. Il Liceo (classico, per eccellenza) inteso da Gentile come la vera scuola della futura classe dirigente è stato terremotato dai processi sociali di questi anni che ne hanno eroso proprio la base sociale di riferimento. Se a scuola scorriamo l’elenco delle famiglie di provenienza dei nuovi studenti ci si accorgerà che da qualche anno l’eterogeneità sociale è fortemente cresciuta. Restano certo i tradizionali figli di medici, avvocati ecc., ma l’eterogeneità culturale è palpabile, riscontrabile. Orrore, per Gentile, il Liceo è diventato “scuola di massa”. I ragazzi che vi affluiscono certamente sono quelli con i migliori voti dalla scuola media (questo purtroppo è “l’orientamento” che ci ritroviamo), ma non hanno più nulla in comune con i giovani di qualche anno fa. La loro eterogeneità sociale e culturale rompe la sacralità dal patto tra scuola e famiglie che ha sempre segnato il Liceo: il “devi studiare duro” in cui docenti e genitori di un tempo si identificavano, anche attraverso una serie di riti simbolici che altro non erano se non percorsi di adattamento alla formazione dei futuri dirigenti, è infranto. Oggi al Liceo, come in tutti gli ordini della secondaria, la rottura del patto tra scuola e famiglie genera un crescente contenzioso tra docenti e genitori, anima denunce e ricorsi, produce conflittualità. Nel Liceo tutto ciò significa la rottura di quel patto ideologico/sociale che ne aveva segnato l’origine e costituito un vero punto di forza. Ma non era in questa profonda trasformazione la sfida di fondo che una politica di cambiamento avrebbe dovuto affrontare?
I giovani si presentano soli di fronte all’esperienza scolastica: smarriti di fronte ai nuovi impegni, fragili di fronte alle prime difficoltà, esposti ai rischi dell’adolescenza del nostro tempo. Se non li “agganci” subito con una forte qualità della relazione educativa, si perdono. Come si vede siamo già ben oltre il vecchio Liceo. E chi non lo comprende mettendo al centro programmi, compiti e lezioni come “si usava una volta”, coglie ben presto il senso del proprio fallimento.
E che cosa c’è di tutto questo nei Regolamenti e nelle Indicazioni? Nulla.
Questi studenti sono diversi anche per altre ragioni. Sono nati nell’ambiente digitale. È impressionante vedere negli incontri dei primi giorni con le classi prime, quando chiedi loro chi conosce e fa uso quotidiano del computer, alzarsi tutte le mani, senza eccezioni. Ma se fai la stessa domanda al Collegio docenti, su 100 docenti sono una decina le mani alzate. Un bel problema. Come la affrontiamo questa diversità? Che cosa vuol dire questa generazione digitale? Io non credo, come ha scritto di recente Giovanni Sartori sul Corriere delle Sera, che questa sia una generazione di “sconnessi”. Certo il loro modo di percepire, comprendere, apprendere, è clamorosamente cambiato, ma gli adulti sono ancora lontani dal riflettere su come tutto questo comporti una ridiscussione delle metodologie e degli ambienti di apprendimento/insegnamento. Non si tratta di omologare la scuola al web, ma la scuola non può ignorare gli effetti delle più grande rivoluzione nel mondo della comunicazione.
Se l’informazione e la conoscenza sono diventate così aperte e accessibili a tutti e da qualunque luogo, che cosa deve fare la scuola? Che risposta dare al bisogno di conoscenze durevoli, profonde, sedimentate, e perciò accuratamente selezionate, a fronte di un vecchio modello liceale generalista, enciclopedico, frammentato, così ben rappresentato in tanti libri di testo? E come organizzare l’attività educativa per un compito così diverso? Possiamo ancora pensare al singolo docente nella singola classe? Al tempo di insegnamento pari al tempo scuola degli studenti?
Ascoltare la scuola, le scuole, significa anche percepire queste domande di potenziale cambiamento che vengono respinte al mittente da norme che hanno rinunciato a esplorare le questioni di fondo.
Da ultimo. In questi anni abbiamo tutti toccato con mano i mutamenti che ha vissuto il mondo del lavoro e le culture che su quel mondo riflettono. Mutamenti certo non lineari ma molti netti nell’evidenziare l’intreccio sempre più profondo fra sapere e lavoro. Da qui la modernità e l’urgenza del tema delle competenze. Da Gardner a Sennett, tutti hanno sottolineato la necessità di recuperare nella scuola una formazione che tenga insieme la mano e la mente; il laboratorio didattico è il luogo in cui si praticano “esperienze” culturali, non “lezioni”, ed esperienza vuol dire fare, produrre, maneggiare, utilizzare, verificare…
Sia chiaro che tutto ciò non c’entra nulla con la preparazione al lavoro. È piuttosto il senso di un nuovo apprendistato moderno che dovrebbe prendere forma dalla scuola media alla scuola superiore; non un canale specifico, non un percorso di seconda scelta o di recupero di drop out, ma una modalità ordinaria da realizzare nell’ambito dei curricoli scolastici, dentro e fuori la scuola. La competenza, lo dico agli esperti con il furore di chi sta a scuola, non è uno schema tecnico, non è una diatriba culturale, è un vissuto che diventa possibile se chi apprende nella scuola può provare passione, curiosità, autostima, coinvolgimento profondo.
Di questa intrigante operazione culturale avrebbero avuto bisogno in primo luogo i Licei, vittime di una cultura gentiliana che ha identificato il vero sapere in quello che è tanto più distante dalla realtà, dal lavoro. E invece il regolamento e le indicazioni hanno ricacciato i Licei nella tranquillizzante tradizione da cui provengono. E a chi aspira a un cambiamento, non resta che lavorare su quelle fragili e ancor incerte quote di flessibilità, per vedere di realizzare nuovi ambienti di apprendimento in grado di rimotivare il lavoro di chi insegna e la curiosità, l’interesse di chi apprende. Ancora una volta sarà solo guardando fuori della scuola che potremo cercare i soggetti, gli ambienti, le risorse anche culturali per dare significato all’educazione dei giovani.
Dario Missaglia