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Immigrati e territorio educativo

Pubblicato il: 22/01/2010 16:04:56 -


Quando ho letto dell’intervento del Ministro Gelmini sul tetto alla presenza degli alunni stranieri nelle scuole ho pensato che la quota è un segnale del disperante dissolvimento di legami sociali che si sono prodotti nel Paese. È una resa al vuoto di territorio educativo, è una resa di una autonomia scolastica debole che vive al chiuso delle proprie pareti invece di proiettarsi sul territorio.
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C’era una volta il territorio educativo. I più giovani, certo, non possono ricordare, ma per gli appassionati esiste ancora una ricca bibliografia cui attingere. In quegli anni, infatti, a metà dei Settanta, anche sotto la spinta di partiti e sindacati, movimenti e tanta ricerca educativa, gli enti locali assunsero un ruolo fondamentale. Musei, servizi sociali, volontariato, persino le stesse strutture produttive, pubbliche e private, divennero un immenso territorio educativo a disposizione delle scuole.

Furono gli anni dell’inserimento degli alunni handicappati nelle scuole e della prima scolarizzazione di massa (legge 517/77). Non c’erano quote rigide da rispettare ma un lavoro di programmazione e intese da coordinare sul territorio. E i Comuni divennero soggetto attivo: potenziarono la scuola per l’infanzia, convinti che la vera prevenzione al disagio nasce da lì; potenziarono il tempo pieno, convinti che attraverso quella esperienza fosse possibile valorizzare differenze ed eccellenze. Se in una scuola l’addensamento degli alunni handicappati poteva adombrare il rischio di classi-ghetto, il Comune si faceva parte attiva per una redistribuzione condivisa sul territorio.

Ho pensato a questo quando ho letto dell’intervento del Ministro Gelmini sulle quote degli alunni stranieri nelle scuole. Critiche e consensi. Ma anche là dove si sono espresse critiche non ho ritrovato questi importanti argomenti. La quota è un segnale del disperante dissolvimento di legami sociali che si sono prodotti nel Paese. È una resa al vuoto di territorio educativo, è una resa di una autonomia scolastica debole che vive al chiuso delle proprie pareti invece di proiettarsi sul territorio. Eppure, per paradosso, la cornice istituzionale è più avanzata degli anni Settanta. Lo Stato ha assunto la configurazione di una rete di istituzioni che vanno dal Centro al Comune; la scuola si è dotata di una autonomia che offre spazi inediti di intervento. Ma come, nel tempo del federalismo celebrato e dell’autonomia conclamata, c’è bisogno delle quote per affrontare il problema?

Il problema c’è, è fuori discussione. L’integrazione non è un processo semplice. Lo sa bene la scuola italiana che si è misurata con passione e generosità su questa frontiera. Non è dalla scuola e dai suoi problemi che sono nate le spinte più xenofobe e razziste che affiorano. Anzi. Per questo la scuola meriterebbe più fiducia e più mezzi. Più sostegno all’autonomia e meno tagli indiscriminati.

La contraddizione di una diseguale distribuzione di alunni stranieri nasce fuori dalla scuola; nasce nella assenza di politiche abitative e sociali che lasciano crescere i ghetti sociali. Difficile risolvere positivamente il problema se non si incide sul cuore dello stesso. Ed è quando queste contraddizioni entrano nella scuola che si pone il problema; perché l’integrazione richiede gradualità e sono a disposizione di tutti importanti ricerche che hanno documentato come, oltre una certa soglia (diciamo quando il numero di stranieri con poca o nulla competenza linguistica supera la metà di un gruppo classe) il rischio di fuga di chi non è straniero si fa alto e concreto, con le conseguenze che tutti immaginiamo. Ma anche là dove si voglia intervenire ora, nelle stesse situazioni più eclatanti, non è un provvedimento amministrativo che può risolvere il problema. Che intanto va identificato, come si è visto anche dalle frettolose precisazioni del Ministro stesso. Lo “straniero” non esiste sul piano didattico. Esistono bambini e ragazzi con conoscenze, competenze, storie. È questo accertamento la base della programmazione di un buon intervento che per evitare le contraddizioni e i problemi di cui sopra va letto e affrontato su base territoriale, in una rete virtuosa tra scuole autonome ed ente locale. Solo così si può mettere in atto una pratica e una cultura dell’accoglienza.

Se non prende vita un territorio educativo, non ci sarà integrazione. Le scuole gestiranno le contraddizioni magari riproducendo al proprio interno barriere e ghetti. E allora non c’è da sorprendersi se poi constatiamo che gli stranieri iniziano a costituire lo zoccolo più rilevante della nuova selezione e dispersione scolastica.

Pratichiamo dunque, con serietà e rigore, federalismo e autonomia delle scuole. Le politiche nazionali sostengano un processo virtuoso di sinergia tra federalismo e autonomia delle scuole con appropriati interventi di sostegno sugli organici, sui mediatori culturali, sui servizi. Questo dovrebbe essere il cuore delle politiche nazionali.

Se lasciamo morire ogni strumento per produrre nuovi legami sociali e solidali, non solo non si realizzerà l’integrazione ma andremo incontro a contraddizioni sempre più esplosive e a un Paese più povero, culturalmente, socialmente e anche economicamente.

Dario Missaglia

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