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Debito pubblico, risparmio privato: l’istruzione come ricchezza pubblica

Pubblicato il: 08/09/2011 17:00:37 -


Per quanto drastici siano i sacrifici che oggi ci si chiede di compiere per evitare il default del Paese, per quanto in fretta si possa arrivare al “pareggio di bilancio “, tutto ciò non basta. Abbiamo bisogno di investimenti, cioè di lavorare per il futuro, impegnando l’oggi: questo significa investire.
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Le pagine di Education 2.0 non sono certo adatte (diversa è la missione) ad ospitare contributi e elaborazioni sull’oggetto delle nostre preoccupazioni quotidiane costituito dalla crisi finanziaria, economica e fiscale che investe il nostro Paese e il dibattito politico corrente. Vorrei però esplorare qualche nesso tra le prospettive del nostro sistema nazionale di istruzione e alcuni elementi sui quali si esercita la nostra quotidiana discussione sulla crisi. Devo perciò considerare ovviamente gli elementi salienti che animano quest’ultima come “dati comuni” e limitarmi a semplici e parziali premesse che ne riprendono solo alcuni, e per accenni, come introduttivi ad alcune considerazioni/provocazioni che investono la politica pubblica dell’istruzione.

1. Viene spesso rammentato che una condizione specifica (positiva) del nostro Paese è la composizione particolare tra un debito pubblico elevatissimo (il terzo o quarto a livello mondiale) e la consistenza particolare del risparmio privato (ai primi posti nei paesi industriali avanzati, per quanto la crisi corroda). Su questa composizione tra vizio e virtù si basa il minor rischio di default che il nostro Paese ha rispetto ad altri con debito pubblico inaffidabile.

2. La ricchezza privata è ovviamente pluristratificata (i lettori desiderosi di “numeri” e che lo vogliano possono consultare le periodiche analisi nei Bollettini della Banca d’Italia): sia per la distribuzione sociale (ma la platea del “risparmio” riguarda quasi un terzo delle famiglie. E ciò spiega, oltre le grida indignate, molte delle “timidezze” nel cambiare la politica fiscale); sia per gli impieghi di tale risparmio. Al primo posto, come è noto, è la proprietà della casa (80% delle famiglie); ma le analisi sulle serie storiche mostrano una progressiva finanziarizzazione degli impieghi: da quello classico del possesso di debito pubblico (BOT, CCT…), a quelli più recenti che riguardano fondi comuni e mercato obbligazionario; più scarsi quelli azionari.

3. Il “mediatore” classico e formalmente pattuito (esplicitamente nel nostro patto costituzionale) tra debito pubblico e ricchezza privata è come noto costituito dal meccanismo della fiscalità. A esso è affidato il compito “progressivo” della redistribuzione del reddito, della produzione di servizi “universalistici” che interpretano e danno corpo ai diritti di cittadinanza, e di tutti gli impegni previsti nell’art.3 della Costituzione (rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono alla effettiva eguaglianza dei cittadini).

4. Ma qui si aprirebbe (si apre) la discussione dettagliata sulla effettiva corrispondenza tra tali affermazioni costituzionali e il concreto “patto fiscale” che ha animato il “compromesso sociale” che ha retto finora il Paese (con tutti gli squilibri e le ingiustizie che hanno dato e danno alimento allo scontro politico). In grande sintesi: l’integrazione e acquisizione di cittadinanza, almeno a partire dagli anni ’70 a oggi, è stata operata a carico della spesa pubblica (scuola, previdenza, assistenza, sanità) e, per quanto riguarda lo sviluppo economico, in “protezione del e dal mercato” (in modi diversi, dalla grande alla piccola e piccolissima impresa artigianale e commerciale; dai coltivatori alle “libere professioni”), usando in sostanza quasi esclusivamente le “certezze” costituite dal prelievo fiscale del lavoro dipendente. La crescita (tumultuosa nel corso degli anni ’80) del debito pubblico ne è la conseguenza storicamente inevitabile. Il risparmio e la ricchezza privata (specie a livello “molecolare” che qui ci interessa) hanno trovato impiego (oltre che ovviamente nei consumi) in buona sostanza in due direzioni principali: il mercato immobiliare (a livelli molto “molecolari”: si pensi a quanto l’uso del TFR ha animato tale mercato) e il tradizionale possesso di debito pubblico (si pensi a quanto sia diffusa anche la piccola proprietà di titoli pubblici). Processi che vengono da lontano. L’indomani della Liberazione e fino a che “tenne” il governo unitario, all’ordine del giorno dell’economia del Paese da ricostruire vi erano tre punti: il cambio della moneta, il prestito pubblico per la ricostruzione, una patrimoniale dalla quale, ovviamente, fosse esentato il prestito pubblico. Lascio alla riflessione storica trarne considerazioni adeguate. Fu intaccato il patrimonio del latifondo con una riforma agraria incentrata sulla “proprietà familiare” della terra e che finì per essere un buon incentivo per l’abbandono della terra e l’alimento al mercato del lavoro industriale (nazionale ed estero). Quanto alla politica immobiliare e all’intreccio tra i diversi “piani casa” succedutisi nel tempo e la politica della rendita fondiaria, mi piacerebbe chiedere all’amico Bruno Roscani (che se ne intende direttamente) di commentare su queste pagine. Il cambio della moneta (e con una gestione che ha compromesso, e anzi pervertito, gran parte del significato potenziale di rinnovamento economico-sociale) è avvenuto con l’Euro. Lo “spessore storico” che spero emerga anche da queste sintetiche premesse ci deve rendere consapevoli del fatto che, per quanto drastici siano i sacrifici che oggi ci si chiede di compiere per evitare il default del Paese, per quanto in fretta si possa arrivare al “pareggio di bilancio “, per quanto “giacobino” possa essere un provvedimento di riforma fiscale (ma non si vedono Robespierre in circolazione: i giacobini non sono, prima di tutto, quelli che hanno tagliato teste, ma quelli che se la sono fatta tagliare pur di cambiare la Storia), tutto ciò non basta, non fosse altro che per il fatto che il debito è comunque ancora più elevato di quanto produciamo. Abbiamo bisogno di investimenti, cioè di lavorare per il futuro, impegnando l’oggi: questo significa investire.

Fine delle premesse.

La domanda immediata che sorge è questa: in questa situazione la “mediazione fiscale” è l’unico strumento per connettere e compensare tra loro debito pubblico e ricchezza privata? Vi sono altri strumenti operativi e realisticamente impugnabili per dare alla ricchezza privata uno sbocco, “giusto ma anche conveniente”, per generare investimento e ricchezza sociale? A contorno di tale domanda stanno due ulteriori specificazioni: la prima riguarda la considerazione della scarsa (eufemismo) fiducia che lo Stato-apparato, la Pubblica Amministrazione e la sua efficienza operativa suscitano, e a ben ragione. Sicché tale domanda configura il suo “possibile realismo” solo se si ricongiunge alla possibilità di disegnare strumenti operativi e attuativi che non ricadano tra quelli subordinati al tradizionale paradigma amministrativo.

La seconda considerazione è che tentare di superare la classica “mediazione fiscale” per orientare il risparmio e la ricchezza privata verso l’investimento in ricchezza sociale significa anche superarne la “indefinita e sommativa” destinazione pubblica, indicandone invece una precisa, esplicita (dunque necessariamente parziale) finalizzazione sociale. Solo di un esempio con qualche tangenziale similitudine: negli anni passati si pose la questione della destinazione del TFR e della “previdenza integrativa”. Solo che a fronte della potenziale mobilitazione di una quota ingentissima di “risparmio privato”, invece di promuovere una logica da “Tennessee Valley” si rispose affidando al mondo delle assicurazioni e della finanza (salvo qualche eccezione) la gestione di una sospettosa e dubitosa scelta volontaria dei lavoratori. Forse perché non c’era allora (?) in circolazione nessun Roosevelt e nessuna idea di new deal (cosa è infatti la politica se non il convergere collettivo delle volontà soggettive?). Oggi, a riprova del permanere di quelle assenze, qualcuno pensa (?) di ridistribuire quel risparmio privato (tale è il TFR) nelle retribuzioni dei lavoratori, ovviamente da sottoporre al normale prelievo fiscale. Confermando la deriva di farsa che assumono sempre le storie quando si ripetono, ricordo di avere affrontato professionalmente l’argomento, tra gli altri, quando a metà degli anni ’70 il Sindacato rifletteva sulle condizioni e gli strumenti per abbassare il costo del lavoro. Se 35 anni vi sembran pochi…

Per tornare alla domanda cruciale, declinata rispetto all’istruzione: come è possibile, e con quali strumenti e condizioni organizzative e gestionali, far convergere in investimenti in istruzione pubblica, insieme alle risorse provenienti direttamente dal Bilancio pubblico, anche risorse finalizzate del risparmio e della ricchezza privata (dunque assicurando ovviamente anche un “rendimento”), in un programma esplicito e con strumentazione finalizzata e vincolata a forme di Bilancio Sociale? Indico due orizzonti di risposte possibili, da esplorare ovviamente per determinare (eventualmente) con maggiore precisione strumenti e condizioni. Sono due orizzonti che confinano e in parte possono anche sovrapporsi, pur rimanendo distinti. Per introdurre il primo versante ricordo alcuni esempi. L’università del Messico ha aperto un bond da un miliardo di dollari al tasso del 5%, finalizzato agli investimenti in istruzione e ricerca presso quella università, a scadenza secolare. L’università della Southern California ha piazzato bond per 300 milioni di dollari, parimenti a scadenza centenaria. Il prestigiosissimo Massachussets Institute of Technology (MIT) ha collocato una emissione da 750 milioni di dollari, sempre centennale e a un tasso del 5,6%. Naturalmente sono solo esempi, distanti dal nostro ragionare. Si tratta di istituti che producono istruzione superiore e ricerca con ricadute economiche rilevanti. Eppure in un mondo finanziario, preda invasata della “breve durata” e dell’immediatezza della convenienza, si tratta di strumenti a scadenza secolare. Chi investe scommette per i prossimi cent’anni. Dunque per i tanti che ci ricordano, spesso acriticamente, l’immancabile convenienza dell’investimento in istruzione, simili esempi dovrebbero risultare interessanti. Per cogliere, tra le differenze specifiche degli esempi ricordati, quanto possa dare ispirazione a una politica pubblica di investimenti nel sistema di istruzione, potremmo ipotizzare che fosse il medesimo soggetto pubblico (e non dunque prestigiosi istituti “privati”) a promuovere una emissione “finalizzata”. Dunque non a “vendere” genericamente “debito pubblico” ma a coinvolgere risparmio privato in una politica pubblica esplicitamente diretta a una finalità e a un “programma a lunga scadenza”. La lunga durata è “fisiologica” all’investimento in istruzione. Del resto la Francia di Sarkozy, prima dello scoppio della crisi, aveva in programma una emissione di bond esplicitamente diretta ad alimentare una politica di investimenti in ricerca e istruzione. Non se ne fece nulla nella tempesta successiva e quando il “lungo termine” perse di significato rispetto a prospettive traballanti di rielezione (la politica “politicata” ha le sue miserie dappertutto…).

A garanzia delle emissioni indicate come esempio e della “leva finanziaria” che mobilitano stanno due elementi: il primo è la “reputazione e il consenso” che chi li emette può vantare rispetto a programmi di investimento, sulla prova di una storia di successi e di risultati. Il secondo è il “patrimonio” al quale gli strumenti finanziari fanno riferimento. (Anche tecnicamente questi sono i parametri e valutare il “rischio” di qualunque investimento). Un patrimonio di beni materiali (impianti e organizzazione) e immateriali, come le competenze, le relazioni, le intelligenze che vi operano. Mutatis mutandis: nel caso prospettato rispetto al sistema di istruzione, sarebbero un esplicito e condiviso “piano di investimenti” e il “patrimonio” garantito dal soggetto pubblico, a costituire la compatibilità economica della leva finanziaria messa in moto. È di tutta evidenza che si tratterebbe di una garanzia a forte e inevitabile valenza “politica”. Se le affermazioni sul valore dell’istruzione non sono solo chiacchiere per difendere categorie e status quo, l’intero paese, con il più largo consenso, andrebbe coinvolto nel “programma” di investimenti finalizzati. Del resto ho sostenuto in altro contributo (Cambiare “dal basso”: l’ordito e la trama) che mai nella sua storia (forse solo e parzialmente con la stagione dei “Decreti Delegati”) il Paese fu “chiamato in assemblea” per decidere quale scuola fosse necessaria e come.

Quanto ai rendimenti di un possibile prestito nazionale per la ri-costruzione del sistema di istruzione non dovrebbero esserci particolari problemi. In un vecchio articolo (Investimento in istruzione: convenienza, rischio, rendimento), commentando un lavoro comparso sul bollettino della Banca d’Italia (“Questioni di Economia e Finanza”, n. 53), di Federico Cingano e Piero Cipollone, allora presidente dell’INVALSI, oltre che membro dell’Ufficio Studi di Bankitalia, mettevo in luce che gli autori, in base a una complessa funzione macroeconomica, avevano calcolato che l’investimento privato in istruzione, corredato da successo, aveva per le famiglie un rendimento valutabile in misura dell’8%. Criticavo quel dato perché eccessivo e per le condizioni poste per il calcolo. Ma anche dimezzandolo, a confronto con la Borsa attuale, si rivelano condizioni di ragionevole appetibilità: al rendimento proprio dell’istruzione (come calcolato dal lavoro di Bankitalia) si aggiungerebbe il rendimento del bond a lungo termine. E ciò anche a prescindere dalle considerazioni extraeconomiche dalle quali si muove questa riflessione.

Insomma bond per la scuola, a lungo termine e su programma esplicito. Naturalmente (vedi condizioni esplicitate precedentemente) la realizzazione di tale programma andrebbe affidato non al paradigma amministrativo cui è tributario, padrone e servo, il MIUR, ma a una tecnostruttura a “governo misto” sottratta alle strettoie formali del diritto amministrativo e sottoposta alla valutazione di risultato. (A meno di riformare in tutta fretta il MIUR stesso: ma la cosa mi pare più irrealistica delle mie stesse provocazioni).

Il secondo orizzonte di risposte alla domanda cruciale con la quale si apre questo contributo (quale rapporto tra risparmio e ricchezza privata e ricchezza sociale costituita dall’istruzione pubblica) ho già provato a indicarlo lungo la riflessione di questi anni sull’autonomia scolastica ed è costituito dal rapporto possibile tra scuola autonoma e “terzo settore”, cioè con il mondo delle organizzazioni non profit (dalle fondazioni alle ONLUS, alla cooperazione e associazionismo). Rinvio a quelle elaborazioni per ogni approfondimento. Ricordo qui solamente che quello del “terzo settore” è un mondo che muove risorse economiche ingenti, e che la partecipazione a esso consente di attingere scambiare almeno parte di tali risorse, tenendo conto che rispetto al complesso di quelle mobilitate dal settore quelle destinate a servizi culturali e alla persona rappresentano una quota consistente. Il “Terzo Settore” ha comunque necessità di un intervento normativo di regolazione generale (per esempio sulle forme di rendicontazione) e di irrobustimento della attività della “authority” cui è affidato il controllo. Non mancano perciò rilievi critici su un uso “disinvolto” di alcune sue caratteristiche che andrebbero presidiate con fermezza (la proliferazione di onlus per esempio andrebbe accuratamente vagliata). E tuttavia è un mondo di grande e interessante dinamica, che negli ultimi anni si è anche progressivamente affrancato dalle opzioni politiche e/o confessionali che lo avevano tradizionalmente contraddistinto e si è tendenzialmente affermato come potenziale espressione della autonomia della società civile e della sua capacità di auto organizzazione.

La scuola autonoma, in quanto soggetto pubblico, può dare vita, singolarmente ma soprattutto in forma associata, a soggetti del terzo settore (dunque non “diventare” come vorrebbe qualcuno, ma “dare vita a…”), in quanto tali regolati dal Codice Civile, e in quanto tali offrire e usufruire di servizi che mobilitano risorse (ovviamente non profit). O anche, più semplicemente, in tale modo dando ordine e organizzazione e trasparenza alla varia attività di fund raising esercitata dalla iniziativa di singoli dirigenti o alla richiesta residuale di contributi diretti alle famiglie, con i quali si tenta di mettere rimedio alle ristrettezze del finanziamento del MIUR. (Valga come esempio la possibilità connessa di concorrere alla distribuzione del 5‰ nelle dichiarazioni dei redditi).

Come si intende è questo un approccio che, valorizzando l’autonomia, si colloca “dal lato della domanda” dunque con una strumentazione che fa leva sulla “molecolarità” della dinamica della società civile e non su una strumentazione di programmazione nazionale, come quella connessa al primo orizzonte descritto. Ciò che rende confinanti, almeno negli argomenti proposti, i due orizzonti descritti sono (almeno) due tratti comuni delle condizioni operative che animano i due orizzonti. In primo luogo la connessione tra un valore universale di cittadinanza (nel caso quello dell’istruzione) e un interesse soggettivo, che può essere quello del funzionamento della scuola dei “miei” figli, ma anche quello del rendimento economico complessivo dell’investimento stesso. Ciò che davvero rende virtuosa la dinamica propria della società civile è questa ricongiunzione. Ed è inutile qui ricordare che a presiedere a tale ricongiungimento di convenienza e valori dovrebbe essere la “politica” che trova in ciò la sua funzione più alta, ma anche il senso reale del compromesso di cui si nutre ogni politica reale. In secondo luogo entrambi gli orizzonti sono contraddistinti dalla essenziale esigenza di definire forme di Rendicontazione Sociale. Una parte del terzo settore (le Fondazioni) sono già vincolate per legge a tale condizione (Il Bilancio di Missione previsto dalla legge Ciampi). Ma è possibile ipotizzare che una tecnostruttura che gestisse per un “governo misto” (Stato, Regioni, Autonomia scolastica) un “prestito nazionale finalizzato e a lungo termine” per un progetto di investimenti nell’istruzione potrebbe/saprebbe dotarsi di una filosofia e degli strumenti della rendicontazione sociale. Del resto in questi anni tale filosofia si sta (lentamente) affermando, in non poche esperienze, insieme a suoi strumenti (non ancora codificati) nelle interpretazioni più coraggiose dell’autonomia scolastica (Franco De Anna “Autonomia scolastica e rendicontazione sociale”, Franco Angeli, 2005).

Franco De Anna

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