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La riva e il ponte

Pubblicato il: 30/07/2012 15:14:47 -


Perché disperdere energie che la stessa crisi suscita? Perché non interpretare la semantica stessa del termine crisi costruendo gli strumenti per l’attraversamento della rottura? Una canzone della mia gioventù cantava “a vent’anni la vita è oltre il ponte...”. È importante esplorare la riva, ma il futuro è oltre il ponte. E bisogna costruirlo.
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È figura retorica sempre più utilizzata in analisi, discorsi e invettive politiche e, come accade all’abuso, di semantica sempre più rarefatta: i giovani senza futuro… il futuro rubato ai giovani… la perdita del futuro… e così via argomentando. Naturalmente il costrutto è applicato prevalentemente ragionando di prospettive di lavoro, di valorizzazione delle risorse umane, di formazione in connessione con lo sviluppo economico, di speranze di affermazione e di autonomia delle nuove generazioni. Sugli autori del “furto” spesso si sorvola e così facendo si innesca la doppia deriva di alludere a responsabilità generazionali precedenti (anziani contro giovani, occupati stabili contro precari, pensionati contro attivi… generazioni che hanno vissuto “al di sopra dei propri mezzi” e generazioni future che quel prezzo pagano) oppure a responsabilità economiche “impersonali”, di sistema: la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, le disuguaglianze di reddito ecc.

Tanti frammenti di verità in tutto questo: come negare che le difficoltà nell’occupazione intacchino le possibilità di interpretare il futuro, o che l’entità del debito pubblico accumulato pesi sulle spalle delle nuove generazioni? Ma, forse, vi sono interrogativi più radicali e risposte che vanno cercate più in profondità e che investono davvero una fase storica intera che contrassegna il XXI secolo che ha smarrito la dimensione stessa del futuro.

Appartengo a una generazione che non ha mai smesso di “pensare il futuro” e quando mi interrogo su questo non riesco a collegare tale impegno con indicatori come “le prospettive di lavoro”, la possibilità di “ascensore sociale”, la domanda di “sicurezza”. Un “privilegio” senza dubbio: ho potuto studiare, sia pure con sacrifici e attraverso percorsi “laterali” (un buon istituto tecnico negli anni ’60); ho usufruito di una fase economica di crescita del mio Paese e dunque non ho penato molto nella ricerca di lavoro; ho vissuto una stagione di sviluppo sociale ed economico. Le mie scelte individuali hanno dunque acquisito senso e valore per ciò che rappresentavano rispetto alla mia crescita personale, ma sempre collocabili in una “intelaiatura” sociale che quel senso confermava e consolidava, o, alla bisogna, correggeva.

Ma l’idea di futuro coltivata nella giovinezza (e tutt’ora) non era formulata a fronte dalle potenzialità della realtà vissuta, ma dall’idea della possibilità e necessità del “superamento dello stato di cose presente” (per usare una espressione sintetica e famosa) e della “sensatezza realistica” di tale impegno. Ad alimentarla, certamente, una cultura otto-novecentesca (la modernità) nutrita di sviluppo scientifico e di “politica” (il pensiero filosofico, per la verità, già disegnava crisi) entro la quale si nutriva il paradigma stesso di “futuro”. Le periodizzazioni storiche sono, ovviamente, degli artefatti, ma sono utili a esemplificare e sintetizzare richiami, analisi e interpretazioni il cui sviluppo esaustivo sarebbe altrimenti troppo impegnativo.

Potrei dire perciò, parafrasando asimmetricamente Hobsbawm, che quel pensiero del futuro è figlio di un “secolo lungo” che potremmo far cominciare dalla sconfitta della Comune di Parigi, e finire con la caduta del muro di Berlino. Quel pensiero del futuro è erede dell’Illuminismo e figlio delle idee del socialismo, che si tratti di filiazioni dirette o di rielaborazioni, anche divergenti ma indotte dalla loro egemonia. La “postmodernità” falsifica proprio quell’idea, e non ne rielabora (per ora) altre. Quattro mi paiono le linee di tensione/torsione di diversa origine e cadenza, ma che si incrociano a caratterizzare tale incapacità di disegnare con “sensatezza realistica” una interpretazione del futuro in grado di collocare scelte individuali e di convalidarle con prospettive collettive. La prima ci è lasciata in eredità dalla storia: il processo di valorizzazione della individualità del soggetto, della sua autonomia, della sua insostituibile potestà e responsabilità nella “assegnazione di significati”, nell’esercizio del logos. “Al centro” sta il soggetto, non le eredità, non le chiese, non l’autorità imposte. Ma mentre ciò si afferma storicamente (e non “pacificamente”, ma tra lotte e conflitti), contemporaneamente lo sviluppo stesso del pensiero ci mostra la irresolutezza del logos nel disegnare significati consolidati (seconda torsione), l’insufficienza della ragione nel misurare la realtà. Dopo Kant e Hegel la filosofia occidentale rincorre la “dimostrazione” di ciò che la ragione “non può” convalidare nel processo di significazione. Fino ad affermare l’inesistenza della realtà stessa e l’improponibilità della ricerca di verità. Nell’ipermedialità e nella dimensione della società di massa ciò che poteva costituire oggetto di confronto tra scuole di pensiero filosofiche diventa, per mille canali e rivoli di banalizzazione e divulgazione, stratificazione di senso comune e “infelicità” comune. Ma l’affermazione della irresolutezza della ragione nella rielaborazione dei significati si accompagna (terza torsione) con la saturazione dei prodotti del logos, attraverso la scienza e la tecnica, dell’intera vita degli individui. Il logos diventa “cosa”, attraverso i prodotti della tecnica, in modalità sempre nuove e sempre più invasive. Forse non si può dimostrare che la realtà esista, ma la “realtà artificiale” prodotta dall’uomo satura il suo presente. Pensosi post heideggeriani strusciano il loro iPad maledicendolo e predicando a tutti di “guardarsene” (induce ignoranza…) e pubblicando libri di successo con queste tesi. Rimarrebbe, all’individuo postmoderno, la via di salvezza del pathos, del desiderio, della ricerca della felicità; se non fosse (quarta torsione) che la combinazione dei tre processi sopra indicati ne deformano radicalmente l’agibilità. Già Freud indicava la dialettica tra civiltà e repressione. Il Desiderio e la Legge del Padre si rispecchiano e senza tale rispecchiamento il Desiderio stesso si dissolve in consumo reiterato delle pulsioni. Ricerca della felicità e principio di realtà si fronteggiano. Autonomia totale (predicata) dei soggetti, totalizzazione della realtà artificiale che “cosalizza” il logos mentre se ne invalida la portata di ricerca della verità, schiacciamento della dialettica Desiderio-Legge, corrispondono a una sorta di annullamento del tempo in un permanente presente. La dimensione del futuro si annulla con l’annullamento del distanziamento tra soggetto e processo di significazione (che ha una intrinseca dimensione di “relazione”); con il cortocircuito del percorso tra l’esercizio “istituente” della significazione (decostruito nella filosofia del “pensiero debole”) e la “razionalità” sempre più potente come produttrice di “cose”; con la riduzione del Desiderio a soddisfacimento immediato e ripetuto delle pulsioni che sostituisce la ricerca (il soddisfacimento posticipato e “misurato” dal principio di realtà) della felicità. Baumann con una (mediaticamente) felice espressione ha forse indicato tutto ciò con il termine “liquido”. Ma sono evidenti i limiti analitici di tale costrutto metaforico. Non vi è nulla di “liquido” in queste contraddizioni, nulla di “navigabile”; anzi la stessa “inafferrabilità” della realtà promuove l’immobilità. Per parafrasare altro costrutto (Magatti): la cultura occidentale che ha abbattuto i vincoli della “trascendenza trascendente” della società ordinata, gerarchica, ispirata a tensioni ultramondane, ha vissuto una fase di “trascendenza intramondana” (una sorta di trascendenza immanente guidata dall’idea del cambiamento dello stato di cose presente, della costruzione della giustizia, della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità: il futuro nell’impegno per una “società più giusta” – che è cosa assai diversa dalla affermazione dei “diritti umani”); e esita oggi in una “immanenza immanente” che, annullando il tempo in un eterno presente (la fine della Storia?), occulta il futuro stesso. Per dirlo con altre parole: la morte del futuro (non solo dei giovani) è prima di tutto nella nostra cultura. L’economia, le prospettive del lavoro e dello sviluppo ne sono il “pendant”. Con un corollario importante: ogni lotta che contrapponendosi al presente guardava al futuro è sempre stata condotta congiuntamente per rivendicare un diverso sviluppo per sé e i propri figli, ma anche per “riscattare” i sacrifici e lo sfruttamento delle generazioni passate e le umiliazioni dei padri. La lotta per il cambiamento nel suo stesso pathos ha sempre declinato passato e futuro, e non semplicemente la dialettica degli interessi del presente. In questo senso “l’indignazione” che sembra offrire l’alternativa attuale alla fine della “trascendenza immanente” delle ideologie, soffre della stessa malattia di “indeclinabilità” temporale. E infatti sembra presentare le caratteristiche della “assenza di durata”. Non metterei conto di misurarmi in discutibile, approssimata sintesi obbligata di tali questioni se non muovessi tre considerazioni che ritengo significative. La prima è desunta da una esperienza particolare. In una cittadina della mia Regione si sta tenendo un festival che si intitola “PopSophia”, la cui ambizione è di esplorare le domande con le quali il pop interroga la filosofia e le risposte che la filosofia può dare alle manifestazioni di cultura popolare. In una cittadina di non più di trentamila abitanti il ripetuto tutto esaurito (migliaia di spettatori) in serate con i più interessanti e qualificati esponenti della filosofia italiana interrogati sulle domande radicali della filosofia (la realtà, il senso, la verità, il significato, il linguaggio, il giusto, il bello, dio e il mondo…) non può che convalidare l’interpretazione (se non altro) che quelle domande da oggetto di confronto tra scuole di pensiero sono trasformate dalla stessa società dei media, in domande “esistenziali”. Ma questo stesso “allargamento della platea” non può che porre ai “chierici” una dimensione diversa del loro stesso lavoro; una responsabilità non solo come “studiosi e tecnici” di una disciplina, ma come “intellettuali”. Costruttori e mediatori di significati e di “senso comune” (alla Gramsci). Che è evidentemente altra cosa che produrre pubblicistica di maggiore o minore successo di massa. La seconda considerazione riguarda quell’“intellettuale di massa” costituito dalla scuola e dai docenti. Non voglio caricare la scuola di responsabilità esorbitanti. Ma la stessa considerazione dei processi che, nella società di massa e mediatica, socializzano la “crisi della ragione” e del sapere al di là delle diatribe tra scuole di pensiero, e dunque non sono esorcizzabili con un generico reclamare il “valore del sapere e della cultura” (il valore della spesa in istruzione nella mia versione da “cattivo”) deve creare diversa consapevolezza “professionale” e un diverso approccio critico al sapere. Torna prepotentemente sulla scena la questione della “formazione dell’uomo”, della “bildung” (per dirla con Goethe) rispetto alla questione della “enciclopedia” e della riproduzione dei saperi ereditati. La dimensione “istituente” della funzione della scuola (epistemologica, ermeneutica, etica), rispetto a quella “istituita” (curricolo, discipline, ordinamenti, architetture istituzionali). Spostare l’attenzione e riorganizzarla attorno a tali focalizzazioni è questione che investe congiuntamente la politica scolastica e l’organizzazione della cultura. Dunque certamente gli ordinamenti, ma soprattutto la formazione, la socializzazione di modelli professionali, l’associazionismo, il sindacato, tutti i presidii dell’organizzazione collettiva della cultura del ceto professionale. Possiamo davvero “reggere” culturalmente il fatto che per un paio d’anni illustri e preparati colleghi si cimentino con qualche cosa che si chiama “nuove indicazioni” per mediare tra le affermazioni di scuole di pensiero (!?) di affezione di Ministri diversi (la cultura come un gadget promozionale-politico) e che poi, raggiunto il risultato a sforzo di connettivi, di avverbi, congiunzioni e virgole, si indirizzi un dibattito “come se” si trattasse di cose serie? L’erba che sarà cresciuta la mangerà il cavallo che campato sarà… Terza considerazione è (implicata nelle analisi precedenti) il legame tra futuro e politica. L’esercizio “istituente” del logos (la significazione) è sempre ambiguo e irrisolto. È sempre “relazione”; è sempre dia-logos. Del resto così recita anche il Talmud “il Signore ha parlato, e io ho udito due voci…”. L’incertezza accompagna l’impresa razionalizzatrice della interpretazione del bene pubblico (ne scrisse già Max Weber), e si misura con la complessità (a Weber sconosciuta) dell’impresa politica post moderna e con la moltiplicazione delle sedi decisionali che essa prospetta. Rispetto alla portata del compito che si prospetta alla politica appaiono mistificate e residuali le vie che sembrano proporsi a una attenzione pubblica che invece appare ridestarsi (vedi nota precedente). Abbiamo elaborato la categoria della “governance” per indicare la necessità di compensare e razionalizzare la pluralità decisionale e sembriamo tornare, nella incapacità conclamata del dare corpo a tale intuizione, a un più tradizionale “government” centralizzato (se dieci anni di federalismo immaginario vi sembran pochi…). Si è elaborata una idea di “politica” dedicata a un approccio “funzionalistico” come se la razionalizzazione dei processi fosse esaustiva e completa e la politica fosse riconducibile ad amministrazione. Possiamo davvero discutere all’infinito su legge elettorale, costi della politica, casta, tecnica e politica? Pensando di condurre discussioni “sensate”? E infine si avanza l’idea che una buona raccolta di “senso comune” veicolata dalla rete possa costituire la novità e il rinnovamento della politica, riducendo il logos (e il dia-logos) a doxa (amplificata mediaticamente), pura dialettica di opinioni e di “sensi comuni” a confronto.

Non c’è futuro (e per nessuno) in nessuna delle tre alternative. Pericoli molti (Weber ha pagine illuminanti sui rischi connessi alla “impraticabilità” del logos nella dimensione politica, dal leaderismo alla fascinazione carismatica). Non ci sono ricette risolventi, diverse dalla faticosa esplorazione dell’incertezza del dia-logos, della organizzazione stabile e comprovata della dimensione relazionale e dunque collettiva degli interessi e delle idee, della assennata combinazione di “volontarismo” (in chiave direi stoica) dell’impegno e “razionalità” che viene alimentata da input crescenti di sapere e conoscenza, insomma dalla fatica che è connaturata al dia-logos. Il resto, direbbe il Vangelo “è del maligno”. Parrebbe l’esortazione intellettualistica e retrò di chi ha vissuto un’altra epoca se non fosse l’osservazione stupita e interrogativa di migliaia di persone disposte a passare la serata estiva a discutere di Heidegger, del nuovo “realismo” o dell’etica dell’incertezza. Perché disperdere energie che la stessa crisi suscita? Perché non interpretare la semantica stessa del termine crisi costruendo gli strumenti per l’attraversamento della rottura? Una canzone della mia gioventù (parole di Italo Calvino) cantava “a vent’anni la vita è oltre il ponte…”. È importante esplorare la riva, ma il futuro è oltre il ponte. E bisogna costruirlo.

Franco De Anna

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