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Scuola che va, scuola che viene

Pubblicato il: 27/05/2013 11:55:09 -


Il governo uscente lascia sul terreno della scuola due questioni rilevanti: il concorso a cattedre e l’emanazione del Regolamento sul Sistema Nazionale di Valutazione. Due aspetti tra i quali, a ben vedere, c’è qualche relazione non sempre resa così esplicita.
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Il governo Monti è appena uscito di scena e appare già lontanissimo.
Le leggi non scritte della politica sono implacabili: nel giro di pochi mesi è possibile essere l’uomo della Provvidenza e subito dopo un solitario testimone di un’esperienza finita.

Al netto degli evidenti errori politici personali, la fine del governo Monti segna anche il punto di crisi di una politica europea del rigore a senso unico che ora mostra tutti i suoi pesanti limiti.

In questo contesto, non è forse inutile riflettere sulle ultime due questioni rilevanti che il governo uscente lascia sul terreno della scuola: il concorso a cattedre, in pieno svolgimento, e l’emanazione del Regolamento sul Sistema Nazionale di Valutazione.

Tra le due questioni c’è qualche relazione non sempre resa così esplicita.

Sul SNV e sulla ostinazione della amministrazione uscente a emanare ad ogni costo il provvedimento, molto è stato scritto con le più diverse argomentazioni.

Io credo che il Miur avrebbe potuto risparmiarsi una forzatura e aprire di più a un dibattito serrato sulla materia. Certo, l’argomentazione di una pressione dell’Europa non è infondata: lo stesso accesso ai fondi europei, per i prossimi anni, chiederà a tutti scelte e pratiche vincolanti in tema di valutazione.

Dunque con quel tema bisogna fare i conti. Non credo che una ostilità intransigente contro le prove Invalsi rappresenti il modo migliore per misurarsi con le sfide della valutazione.
Quella protesta, al di là delle intenzioni, accarezza inevitabilmente un’istanza conservatrice e alimenta una cultura corporativa che nega la valutazione come tema decisivo, sia per il lavoro nella scuola sia per il sistema.
Paradossalmente quella istanza contribuisce a dare alle prove Invalsi quella centralità che non hanno e non possono avere.
Le scuole che già hanno maturato una buona cultura sulla valutazione non drammatizzano l’esperienza Invalsi, perché ne hanno già compreso la parzialità e in tal senso la governano.

Sono le scuole in cui l’obiettivo non è essere primi in classifica, ma riuscire a sviluppare tra i docenti pratiche di cooperazione professionale per la realizzazione di esperienze innovative centrate sulla solidarietà, sul lavoro di gruppo, sulla relazione di aiuto tra gli studenti.

Dopo i disastri di questa cultura di mercato, che cosa aspetta la scuola a contestare apertamente l’individualismo, la competizione ad ogni costo, l’incitazione all’ansia di prestazione?

È vero, la scuola da sola non può cancellare o superare le diseguaglianze sociali, ma può almeno evitare di esaltarle, acuirle e aprire spazi di inclusione diversamente impensabili. Altro che prove Invalsi, questo è il cuore della sfida che la scuola ha oggi, in questo contesto sociale ed economico.

Come non smascherare questo velo della supposta meritocrazia per mettere a nudo le diseguaglianze sociali che si vogliono nascondere? Nello stesso tempo quelle stesse scuole rivendicano il giusto riconoscimento di una attività che determina un aggravio rilevante di lavoro per alcuni gruppi di docenti e per le segreterie delle scuole e formulano anche proposte precise di modifica di alcuni quesiti.

Queste rivendicazioni sono sacrosante, e fa bene la FlcCgil a sostenerle con determinazione, nel quadro di un approccio propositivo complessivo sul tema della valutazione sostenuto anche dalle associazioni professionali e dagli studenti.

Ciò che invece io credo sia ancora davanti a noi è la costruzione di una elaborazione autonoma che sottragga il tema della valutazione all’egemonia della cultura neoliberista per farne uno strumento davvero di possibile miglioramento da parte delle scuole e, auspicabilmente, di rilettura del lavoro e dell’organizzazione del lavoro nella scuola.

È tempo che un qualche riflettore si accenda su questo tema, come ad esempio sta accadendo in Francia dove inizia a serpeggiare qualche fermo dissenso su una politica europea che con l’insistente ricorso all’ideologia della meritocrazia, presidio “culturale” della attuale politica per la valutazione, tende in realtà a coprire la crescita delle diseguaglianze sociali e si prepara a una fase ancora di contenimento degli investimenti in istruzione, di cui la distribuzione “per merito” coprirebbe la modestia.

Io credo che anche lo scenario del nostro sistema di istruzione riveli altrettanto limpidamente queste contraddizioni.
Ad oggi infatti non solo l’amministrazione centrale non ha lavorato alla definizione di protocolli (Lep o altro che dir si voglia), strumento fondamentale per consentire alle scuole di avviare percorsi di autovalutazione e miglioramento, ma non ha neppure avviato un’analisi della propria struttura, centrale e periferica, per individuare anche su quel versante i fattori di vischiosità e resistenza ai processi di miglioramento.

La gestione del concorso a cattedre in corso è una conferma lampante di queste contraddizioni.
Tralasciamo anche qui questioni già dibattute relative all’opportunità o meno di un concorso in assenza di una precisa e chiara strategia di rientro dal precariato esistente.
E lasciamo per un attimo sullo sfondo la riflessione sul tipo di concorso prescelto, il carattere delle prove e le modalità di valutazione.

Quel che colpisce è la gestione in atto. Il Governo ha deciso di fare un concorso a costo quasi zero. Ha previsto compensi irrisori a presidenti e membri di commissione, vietando anche esoneri dalle attività di servizio.

Ma che segnale si manda alla scuola, a quelle persone che stanno per iniziare un nuovo lavoro, alla pubblica opinione, con queste scelte?

L’esito è sotto gli occhi di tutti.
Decine e decine di presidenti e membri di commissione, appena conosciuta la realtà, si sono dimessi dall’incarico, aprendo a una girandola di sostituzioni che sono andate avanti per mesi.
Con il risultato che abbiamo persino presidenti di commissione con abilitazione diversa dalle classi di concorso assegnate.
Insomma altra carne al fuoco per la prevedibile ondata di ricorsi.
Ma il dato macroscopico è la scelta di una amministrazione che mentre dovrebbe fare del concorso per selezionare i futuri docenti uno dei momenti più qualificanti e rigorosi del proprio agire, non investe nel processo e lo lascia in balia della buona volontà e della ostinazione di pochi volontari, una buona parte pensionati, con l’unico obiettivo di “risparmiare” risorse.

Incredibile se non fosse vero e anche inammissibile perché non c’è ragione che tenga a voler difendere queste scelte. Il Bilancio dello Stato non sarebbe stato certamente messo a repentaglio da scelte più qualificate

Il fatto è che questo evento ci consegna l’immagine reale della amministrazione. Una grande struttura che, al di là anche della volontà dei suoi dirigenti politici, vive nell’ottica della conservazione di sé.
L’autotutela corporativa consiste nel produrre lavoro funzionale al mantenimento di quel posto e di quella funzione, non al raggiungimento di un obiettivo. Il raggiungimento dell’obiettivo è solo un corollario; ma proprio per questo, essendo secondario, è marginale rispetto alla sua qualità intrinseca e alla sua utilità sociale.
Ecco la fotografia del concorso.

Questi sono i processi reali che andrebbero affrontati con determinazione e con una opzione culturale e politica chiara: non c’entrano nulla i fannulloni o la digitalizzazione degli uffici (ovviamente importante). Senza una riforma della amministrazione orientata e governata davvero nell’ottica della autonomia delle istituzioni scolastiche, e dunque servente rispetto alle scuole autonome, non si pongono neppure le basi per un sistema di valutazione finalizzato al miglioramento.

E allora l’Invalsi, al di là del tentativo di offrire un servizio utile alle scuole, appare come un processo separato e irrilevante rispetto alla qualificazione del sistema (che si vorrebbe valutare).

La chiusura corporativa, l’indifferenza al risultato, l’ossessione dell’atto e non dei suoi esiti, la forsennata rincorsa a non esporsi mai di fronte ai problemi concreti, questi sono i veri nemici di una cultura e pratica della valutazione che costituiscono il cuore del modello amministrativo. E sono talmente forti da condizionare i comportamenti individuali.
Lo sanno bene i dirigenti scolastici. I messaggi che giungono loro sono chiarissimi: stai nelle procedure, stai sulle norme, non rischiare, non ti esporre, non intervenire se proprio non sei costretto a farlo. E anche tutto ciò la chiamano meritocrazia.

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Immagine in testata di Pixabay (licenza free to share)

Dario Missaglia

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