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Tempo pieno… già nel mito?

Pubblicato il: 06/03/2009 16:50:17 -


Alle soglie dell’ennesima riforma della scuola il tempo pieno c’è, con il blasone dei suoi padri fondatori, ma anche avendo alle spalle un solido mito, cementato dall’impegno di tanti insegnanti, di molti dirigenti appassionati e di enti locali attenti.
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È interessante, nelle vicende scolastiche degli ultimi mesi, notare il forte appeal che la scuola elementare a tempo pieno riveste nell’immaginario collettivo, delle mamme e delle maestre in primo luogo, ma anche dei decisori politici, siano essi di governo o di opposizione. Tutti si sono affrettati a ribadire o a chiedere che quel tipo di scuola sia salvaguardato, anzi – pur in presenza di rilevanti tagli alle spese per l’istruzione – addirittura potenziato. Oggi la presenza del tempo pieno è pari a circa un quarto della scuola italiana (il restante 75% presenta orari variegati, ma più corti, in base alle richieste dei genitori). Il suo insediamento è più forte in alcune regioni del Nord (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna), ma anche nelle grandi città del centro. Con un organico tutto sommato contenuto, due docenti per classe e qualche arrotondamento per la lingua straniera ed il sostegno, il modello del tempo pieno appare piuttosto carico di virtù che non di vizi, e non sembra dimostrare gli acciacchi della sua longevità. Fu infatti istituito con la legge 820 nell’ormai lontano 1971. Lo stesso “Quaderno bianco dell’istruzione” (settembre 2007), che espone con lucidità i punti deboli e gli sprechi della scuola italiana, in una ottica condivisa sia dalla destra che dalla sinistra, propone l’estensione del tempo pieno dall’attuale 25% al 40% della platea dei bambini italiani. Gli stessi governanti si sbracciano per assicurare i “manifestanti” che il tempo pieno sarà mantenuto (vedremo…).

Ma quali sono le ragioni di questo persistente successo di pubblico? La critica, si sa, è più esigente e vorrebbe qualche dato più probante circa i vantaggi di un modello di tempo scuola più esteso, rispetto alla sobrietà di una didattica “breve”.

Certamente il tempo “lungo” si concilia meglio con le esigenze di organizzazione di una famiglia “corta” ed impegnata fuori casa: non a caso la maggiore diffusione di tempo pieno si ha nelle zone a più alta occupazione femminile extradomestica. Poi c’è una storia pedagogica gloriosa, che viene dai mitici anni sessanta, ove il tempo veniva sbandierato come vessillo dell’innovazione e del superamento di un modello didattico tradizionale: trasmissivo, verbale, dunque… antimeridiano. Avere più tempo a disposizione avrebbe consentito (e può consentire) di superare vecchie gerarchie tra saperi (quelli formali versus quelli pratici), di uscire dall’aula per incontrare la “cultura fresca di giornata” (la metafora non può che essere di Frabboni), di centrare l’attenzione non solo sugli apprendimenti cognitivi, ma di prendersi cura della formazione dei ragazzi in un senso più ampio (sociale, estetico, affettivo, alla cittadinanza). Dietro a questa piattaforma culturale stavano nobili tradizioni pedagogiche, sia di area laica (Bruno Ciari, per tutti), ma anche di area cattolica (Elio Damiano, per fare un nome). Inoltre, la lettura politica del tempo pieno come scuola del diritto allo studio, dell’integrazione, delle pari opportunità (“ai cretini, dategli la scuola a pieno tempo” profetizzava Don Milani) la rendeva un oggetto assai appetibile per i sindacati e per la sinistra in generale, magari con qualche resistenza della maggioranza silenziosa. Poi i conflitti ideologici si sono stemperati, il modello si è routinizzato, anzi a volte è apparso – nella stabilità dei due docenti contitolari di classe – assai più rassicurante e di semplice lettura delle alchimie di certi moduli (tre docenti su due classi, o quattro su tre; uno, due, tre pomeriggi o nessuno…).

Ecco perché, alle soglie dell’ennesima riforma della scuola il tempo pieno c’è, con il blasone dei suoi padri fondatori, ma anche avendo alle spalle un solido mito, cementato dall’impegno di tanti insegnanti, di molti dirigenti appassionati, di enti locali attenti. E forse, al di là di molti indicatori, delle statistiche, delle rilevazioni degli apprendimenti, il “mito” di una scuola che cerca di resistere è esso stesso un indicatore di qualità, almeno di qualità percepita. E non è risultato di poco conto, in una società civile così avara di riconoscimenti verso la sua scuola.

Per approfondire:
• Giancarlo Cerini (a cura di), Idee di tempo, idee di scuola, USR Emilia-Romagna, Tecnodid, Napoli 2005.

Giancarlo Cerini

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