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Scuola, Stato, Regioni e il referendum costituzionale

Pubblicato il: 19/09/2016 18:31:18 -


Il Titolo V della Costituzione è nuovamente al centro di analisi e riflessioni solo da parte degli esperti: che cosa è cambiato, se è cambiato, dal 2001 e che cosa cambierà, se cambierà, dopo il referendum?
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Nell’appassionata polemica che ha investito la riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum le norme relative all’ordinamento scolastico rischiano di finire in una zona d’ombra. Vale dunque la pena, al di là delle opinioni e degli schieramenti, di andarle a guardare da vicino, considerato che nei quindici anni successivi al fatidico 2001 – anno di entrata in vigore della legge costituzionale n.3 – l’intreccio dei rapporti tra scuola autonoma, potestà legislativa dello Stato e potestà legislativa delle Regioni ha determinato un notevole livello di conflittualità.

La questione principale che si pone è senza dubbio la seguente: la nuova normativa del titolo V, è realmente migliorativa rispetto alla riforma del titolo V del 2001? Prima di tentare una risposta sarà utile ricordare quali furono le spinte che produssero quell’acclamata (anche dal voto popolare) riforma del titolo V della Costituzione.

Molti ricorderanno che alla fine degli anni ’90 il vento che soffiava dal Nord, ma non solo, aveva una netta impronta federalista, una spinta, che sembrava inarrestabile e che contribuì ad ampliare la potestà legislativa delle Regioni in varie materie tra cui l’istruzione e l’organizzazione scolastica.

I fautori del nuovo impianto parlarono di una sorta di “federalismo scolastico” mentre i detrattori avvertirono nelle pieghe della normativa una sorta di ipocrisia statale nei confronti delle regioni. Quel che è certo è che il braccio di ferro politico e istituzionale si è spostato, lungo tutti i tre lustri, alla Corte Costituzionale che, secondo una statistica recentemente riportata da Il Sole XXIV Ore, ha dovuto far fronte a più di 1600 ricorsi sul conflitto di competenze Stato – Regioni in quello stesso periodo.

La Regione più conflittuale nei confronti del potere centrale è stata la Toscana seguita dalla Provincia autonoma di Trento e da quella di Bolzano, ma nessuna si è sottratta al duello.

L’art. 31 della nuova legge costituzionale, che ha riscritto l’art. 117 della Costituzione indica dettagliatamente tutte le materie sulle quali lo Stato ha una potestà legislativa esclusiva e, al terzo comma, quelle sulle quali le Regioni esercitano la loro potestà legislativa residuale.

Da un attento confronto tra l’indicazione precedente a quella attuale balza agli occhi la controspinta politica esercitata rispetto al 2001 con la riduzione dei poteri delle Regioni che negli ultimi quindici anni, oltre ad alimentare un massiccio contenzioso costituzionale, non hanno saputo sufficientemente contenere i costi dei loro servizi e dei loro apparati.

Inizierà dunque il secondo tempo della partita centralismo vs federalismo, essendosi concluso il primo tempo a svantaggio del federalismo?

Questo sarà il referendum popolare a deciderlo, per ora lo schema di gioco messo in atto con la riduzione dei poteri regionali prevede la soppressione della potestà legislativa concorrente, con il trasferimento dal legislatore regionale a quello statale di alcune materie oggi ricadenti nella competenza dei Consigli regionali.

A suggello di questo schema il quarto comma introduce una clausola di supremazia: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.” Nell’inevitabile metafora calcistica è come dire che la squadra dello Stato non giocherà mai fuori casa! Ma torniamo alle norme sulla scuola e confrontiamo anzitutto le precedenti disposizioni con quelle soggette a referendum.

Rimane nella potestà legislativa delle Regioni, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, la materia dei servizi scolastici, della promozione del diritto allo studio, anche universitario. Mentre la formazione professionale, da sempre di competenza regionale, è collegata alla promozione della sviluppo economico locale e all’organizzazione dei servizi alle imprese nell’ambito di competenza.

Con la soppressione della potestà legislativa concorrente o ripartita viene meno l’attribuzione generica in tema di “istruzione” contenuta nella legge costituzionale n 3/2001 all’art. 3 secondo comma. Vale la pena ricordare che tale potestà definisce una legittimità a legiferare, dello Stato e delle Regioni, con diversa intensità: infatti mentre al primo spetta di fissare con le sue norme i principi fondamentali, le Regioni hanno il compito di svolgere questi principi organizzando e adattando la loro legislazione alle condizioni e agli interessi locali.

Com’era prevedibile il concorso tra Stato e Regioni sulle tematiche dell’istruzione si è spesso risolto in ricorso proprio sugli aspetti della legislazione concorrente e sulle sue ambiguità. Infine, nei tre lustri in cui ha operato la riforma del Titolo V, lo Stato non ha voluto riconoscere (da ultimo con la legge n. 40/2007) la potestà legislativa esclusiva delle Regioni in tema di istruzione professionale, che pure era stata attribuita all’ente regionale, anche in forza della circostanza che la quasi totalità dei percorsi formativi degli istituti professionali si concludono con l’esame di Stato, al cui diploma, com’è noto è riconosciuto valore legale.

La querelle è proseguita a lungo fino all’attuale Riforma della riforma del Titolo V. Con essa lo Stato eserciterà una potestà legislativa esclusiva in materia di “disposizioni generali e comuni sull’istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica.” Dopo quest’attribuzione e nel contesto di quella sulla previdenza sociale e della tutela e della sicurezza sul lavoro vengono indicate, come oggetto della potestà legislativa dello Stato: le politiche attive del lavoro e le “disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale.”

Quest’indicazione, nel tentativo di essere compresa a pieno, va necessariamente collegata con l’articolo precedente, in cui s’ipotizzano ulteriori forme e condizioni di autonomia in alcune materie, tra cui le politiche attive del lavoro, l’istruzione e la formazione professionale. Non è più il livello di ambiguità cui si prestava la legislazione concorrente, ma rischia di essere un potenziale focolaio di contenzioso in nome di una eccessiva riduzione dell’autonomia degli enti nell’applicazione di tale dettato.

A questo proposito, come si è visto, rimane la valenza costituzionale dell’autonomia delle scuole, che negli anni ha rappresentato una risorsa imprescindibile. Ma proprio l’autonomia delle scuole, bene primario, non rischia di risultare eccessivamente compresso dal nuovo schema delle potestà?

Di primo acchito verrebbe da rispondere di no, dato che la legislazione portante dell’autonomia scolastica, inclusa quella più recente, rimarrebbe interamente in vita, in quanto perfettamente compatibile con le nuove norme della Carta; infatti, come si è visto c’è stato soltanto un diverso bilanciamento delle competenze tra Stato e Regioni, a favore del primo. Ma nell’attuazione di tale schema sarà opportuno vigilare sull’eventualità di improvvisi scantonamenti centralistici.

Da ultimo il nodo dell’istruzione professionale statale e della formazione professionale regionale: opportunamente questi temi sono stati legati alle politiche del lavoro nelle disposizioni citate, anche se di fatto il collegamento era già in larga parte attuato, almeno a livello teorico e di strutture. Ma la separazione dei due settori, riportando le potestà legislative di Stato e Regioni alla situazione anteriore al 2001 ha sancito il fallimento di un raccordo di fatto imprescindibile tra istruzione e formazione professionale.

Il fallimento, in realtà, di un’integrazione mai nata per la resistenza e l’opposizione dello Stato al fine di mantenere nella sua sfera l’istruzione professionale, di fatto parificandola, sul piano normativo all’istruzione tecnica. E’ comunque opportuno fornire, al fine di cogliere la nota complessità delle possibili interazioni presenti e future, un quadro delle terminalità dei percorsi educativi e/o formativi con gli enti statali e regionali che li organizzano e che rilasciano le relative certificazioni e attestazioni.

Nei vari modi in cui potrà essere disposto, dopo il referendum, il travagliato scacchiere normativo, permane l’esigenza di uno stretto coordinamento tra politiche educative e quelle formative nel settore, anche perché è venuta, in gran parte, a mancare l’integrazione dei due settori precedentemente tentata.

Permane altresì anche l’esigenza di una forte sinergia finanziaria e degli enti preposti, per realizzare un’auspicata economia di scala in tutto il settore che consenta di migliorare l’organizzazione, recuperando risorse: meno apparati e più servizi potrebbe essere una buona meta da perseguire.

Infatti, per la fascia economicamente più debole della popolazione scolastica italiana e dove maggiore è la dispersione, è necessario un innalzamento dei livelli d’istruzione e di formazione per interrompere definitivamente il cortocircuito innescato tra bassa istruzione e alta diseguaglianza.

Tutte le indagini effettuate in questi ultimi anni hanno evidenziato ciò che è stato ampiamente riscontrato, e cioè che insufficienti livelli culturali e di formazione tecnico – professionali sono strettamente associati a lavori poco qualificati, con un basso reddito e con un alto rischio di disoccupazione giovanile.

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Giuseppe Fiori

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