Ora sappiamo cosa ne sarà dei CPIA
L’approvazione del regolamento sui CPIA spazza via il sospetto che la circolare ministeriale che ne rinviava l’istituzione preludesse a un loro accantonamento.
Dal 2010 i centri provinciali per l’istruzione degli adulti verranno istituiti all’interno di un quadro che colloca il sistema di istruzione per gli adulti in piena discontinuità con le linee maturate in questi anni sull’educazione permanente. Dalla lettura del regolamento vorrei sottolineare tre questioni.
1. La strategia dell’integrazione dei sistemi, non solo non viene richiamata nemmeno nella premessa, ma viene sostanzialmente pregiudicata dalla rigidità dei percorsi proposti e dall’assenza di riferimenti a un sistema di certificazione intersistemico. Peraltro, le indicazioni sulla valutazione e la certificazione saranno definite in un successivo decreto, in una logica, temo, tutta interna al sistema di istruzione. Il decreto Fioroni sembrava delineare una strategia tesa a regolare in prima istanza il sistema dell’istruzione attraverso l’istituzione dei CPIA, in attesa di un disegno intersistemico più organico. Si poteva ritenere positivo il fatto che ai CPIA fosse assegnata la priorità di gestire percorsi finalizzati all’elevamento del livello di istruzione della popolazione adulta, che nel nostro paese presenta livelli molto bassi, ponendo in secondo piano l’offerta di carattere più genericamente culturale, tipica dei CTP, che intercettava in sostanza adulti con un buon livello di istruzione. Altrettanto positivo il fatto che si desse valore alla ricca esperienza dei CTP (centri territoriali permanenti) nell’insegnamento dell’italiano come L2 e si ponesse questo tra gli obiettivi dei CPIA. Ora è proprio questo disegno organico che viene a mancare perché non si fa nessun riferimento al sistema integrato, ignorando i presupposti stessi dell’educazione permanente degli adulti, che deve legare l’offerta al bisogno e alla condizione sociale e occupazionale che l’adulto vive, riconoscendo le competenze fino allora e comunque acquisite e favorendo percorsi di apprendimento personalizzati. In quest’ottica vanno superate le rigidità dei sistemi, che, se non dialogano, respingono e non accolgono la persona adulta. I CPIA come istituzioni scolastiche autonome potevano essere lo strumento per ricondurre a un progetto formativo organico e integrato l’offerta di istruzione, proiettata in una dimensione territoriale capace di leggere i bisogni e di costruire interazioni con gli attori formativi territoriali, in primo luogo con la formazione professionale. Il vincolo posto dalla finanziaria del 2007, di istituire i CPIA a costo zero e con operazioni di compensazione nell’ambito del dimensionamento, ha posto seri problemi alle Regioni e alle Province, tuttavia ci sono state Regioni che si sono misurate con questa questione, evidentemente nella convinzione di poter contare sui CPIA come un anello strategico del sistema regionale di istruzione e formazione permanente. Ho collaborato con la Regione Lazio allo studio della proposta di istituzione dei CPIA e devo dire che, nonostante i vincoli della circolare ministeriale, che individuava i parametri nell’offerta esistente e non teneva conto dei bisogni rilevati, è stato fatto uno sforzo di rendere la proposta coerente con la programmazione territoriale, in modo che ogni CPIA potesse avere un territorio di riferimento significativo quanto all’offerta di servizi di formazione, orientamento e avviamento al lavoro, di servizi sociali e culturali. Mentre si elaboravano i piani di dimensionamento diventava evidente che si sarebbero impiantate istituzioni molto complesse, comprensive di un’offerta di istruzione molto articolata sul territorio, che finora era stata gestita con criteri e obiettivi in alcuni casi molto distanti dai compiti che i CPIA avrebbero dovuto assumere. L’offerta esistente di istruzione superiore è estremamente carente in termini quantitativi, nel Lazio una ricerca dell’ISFOL 2006 individua nel 4,2% il rapporto tra utenti potenziali e utenti effettivi. Ma è altrettanto carente in termini qualitativi, in quanto non propone percorsi flessibili; un indicatore in tal senso è dato dal preoccupante livello di abbandoni, e dalla inconsistenza delle sperimentazioni di percorsi integrati con i CTP e la Formazione professionale, che potrebbero consentire livelli intermedi di certificazione. Tale quadro avrebbe dovuto suggerire la messa in campo di forti azioni di accompagnamento nell’istituzione dei CPIA da parte dell’amministrazione scolastica: formazione dei dirigenti scolastici, formazione dei docenti e del personale amministrativo, supporto alla sperimentazione di percorsi integrati e flessibili (sul modello del progetto Polis piemontese) e assegnazione di un organico funzionale, a cui si sarebbero dovute affiancare azioni di governance da parte delle Regioni e delle amministrazioni locali mirate a creare reti territoriali di servizi dotate di strumenti per la rilevazione dei bisogni e per una programmazione territoriale che faccia incontrare la domanda e l’offerta di formazione. Il decreto recentemente approvato nella sua impostazione scuolacentrica non soddisfa affatto queste aspettative e di fatto sposta sulle Regioni e le amministrazioni locali le politiche di integrazione, nell’assenza di linee strategiche nazionali e di risorse destinate. Una Regione che voglia porsi l’obiettivo di elevare il livello di istruzione degli adulti del proprio territorio e di rispondere ai bisogni diffusi di recupero e ampliamento di competenze dei diversi target di popolazione adulta (occupati, non occupati, giovani adulti, anziani, immigrati, ecc.), deve poter disporre di un’offerta articolata, dall’istruzione alla formazione professionale, ai corsi non formali, capace di raccordarsi con una solida e diffusa rete di servizi. Tutto questo si può fare disponendo di capacità di governance, ma anche di risorse e dubito che possa realizzarsi senza una seria e forte regia nazionale.
2. Il fatto che i CPIA non dispongano di risorse per percorsi di formazione indirizzati all’alfabetizzazione degli adulti che hanno competenze inadeguate, pur se provvisti di titoli e il drastico ridimensionamento dell’offerta di corsi di italiano L2 per i migranti, a meno che non siano inseriti nei percorsi formali, sta ad indicare che il Ministero dell’istruzione non ritiene che questi bisogni di formazione debbano trovare risposta nel sistema dell’istruzione. Si dismette un organismo (il CTP) che, pur tra le contraddizioni, aveva costruito strategie di apprendimento, competenze professionali e reti territoriali, senza avere un’idea di come affrontare il problema o forse pensando che si debba affrontare in una logica di carità sociale. Anche in questo caso si scaricano i costi materiali e sociali del problema sulle Regioni e le amministrazioni locali che non potranno ignorare questi bisogni e dovranno trovare le risorse e le competenze professionali per affrontarli.
3. Tra le categorie sociali che più rischiano di essere danneggiate da questo nuovo indirizzo ministeriale vorrei citare i detenuti. Si dice che i percorsi didattici tracciati nel regolamento potranno essere organizzati negli istituti penitenziari, lì dove sono già presenti i CTP o gli istituti superiori. Ma si ignora che ben pochi saranno i detenuti che potranno affrontare percorsi così lunghi e con un orario di 400/600 ore pensando di portarli a termine. Questo sia per i tempi di detenzione, sia per i trasferimenti che si verificano, a cui va aggiunta la condizione vincolante di non possedere il titolo di studio dell’obbligo o della scuola superiore. La scuola in carcere costituisce il luogo della formazione ed è parte del trattamento, ciò significa che deve rispondere alle condizioni della vita carceraria e ai bisogni dei detenuti che cambiano nel tempo. Il diritto ad andare a scuola, che spesso è l’unico luogo dove fare esperienze di conoscenza, non può cessare il giorno dopo che è stato conseguito il titolo. Per questa ragione si erano consolidati negli anni accordi tra l’amministrazione dell’istruzione e l’amministrazione penitenziaria e concordate prassi nell’organizzazione delle attività formative, che prevedevano, ad esempio, l’organizzazione dei corsi in forma modulare e tesi all’acquisizione e certificazione di competenze, consentendo l’accesso a prescindere dal possesso dei titoli di studio e dalla possibilità di completare il percorso in carcere. Molti detenuti, peraltro, sono stranieri e non necessariamente interessati a conseguire un titolo di studio italiano, ma certamente interessati ad apprendere la lingua e la cultura. Anche a questa categoria di persone si decide che l’istruzione non dà risposta, salvo che il CPIA non riesca a trovare risorse per fare altre attività formative.
In sostanza in tutti i casi in cui bisogna rendere i percorsi flessibili e mirati ai bisogni specifici di particolari categorie di popolazione adulta, saranno i CPIA nella loro autonomia a farsene carico, magari ricorrendo a risorse regionali e locali.
Grazia Napoletano