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Piano Gelmini-Sacconi: subalternità all’impresa e futuro incerto

Pubblicato il: 06/10/2009 17:14:00 -


Abolire il valore legale del titolo di studio significherebbe solo ampliare il tasso di discrezionalità e raccomandazione nelle assunzioni pubbliche e nell’accesso alle professioni. Francamente non sembra che ce ne sia bisogno.
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Il piano d’azione presentato il 23 settembre dai Ministri Gelmini e Sacconi parte da effettivi e gravi problemi per il futuro dei giovani e del paese, ma si limita a fornire risposte per lo più ideologiche, slogan e semplificazioni. La ricetta fornita dai Ministri di Istruzione e Lavoro da un lato ripropone riforme già messe in atto nella precedente legislatura e ora pesantemente compromesse dai tagli, dall’altro prospetta soluzioni irrealistiche e pericolose, come la costruzione di percorsi di istruzione interamente “nei luoghi di lavoro e in assetto di lavoro” e l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

I problemi da affrontare sono rappresentati dalla necessità di rilanciare l’occupazione qualificata dei giovani e di superare i limiti di autoreferenzialità del nostro sistema educativo. A questo fine il piano del governo individua sei priorità: la transizione dalla scuola al lavoro, l’istruzione tecnica e professionale, l’apprendistato, i tirocini, la formazione universitaria, i dottorati di ricerca.

Il documento, oltre a una generica e ovvia indicazione di potenziamento dei percorsi di orientamento al lavoro e di alternanza scuola-lavoro, propone che le scuole e le università assumano il ruolo improprio di agenzia di collocamento dei propri studenti, indicando alle aziende i giovani ritenuti più adatti. Tace invece sui poli formativi territoriali, uno strumento essenziale per rilanciare la programmazione partecipata territoriale dell’offerta formativa e per renderla più rispondente ai fabbisogni formativi connessi alle prospettive di sviluppo dei territori e dei settori. Così come si limita a declamare la centralità della certificazione e del riconoscimento delle competenze comunque acquisite, senza indicare alcun impegno concreto per far partire un sistema nazionale di validazione delle competenze a cui far corrispondere un Repertorio nazionale delle figure professionali.

Istruzione tecnica, professionale e apprendistato. Del tutto ideologico il ruolo esorbitante e irrealistico che viene affidato all’impresa, che indubbiamente può costituire una delle sedi della formazione, purché sia fornita di adeguati requisiti. Il Piano invece arriva ad affidare interamente all’impresa la costruzione di percorsi di istruzione tecnica e professionale, una vera e propria abdicazione del ruolo dello Stato del tutto incostituzionale. Un’idea lontana dalla concreta realtà del sistema produttivo italiano, in gran parte costituito da aziende di piccole dimensioni, le cui imprese sono collocate agli ultimi posti tra i paesi sviluppati per investimenti in formazione, ricerca e innovazione. È importante valorizzare e diffondere le esperienze di integrazione e di alternanza scuola-lavoro, ma è inaccettabile la tesi ideologica del governo secondo cui ogni impresa possiede di per sé capacità formativa. Se è vero che l’apprendimento avviene anche in modo informale e che si apprende anche lavorando, è altrettanto vero che ogni impresa non è automaticamente formativa, cioè in grado di progettare, gestire e valutare percorsi intenzionalmente formativi. Per questa ragione è pericolosa l’indicazione di superare la distinzione tra formazione interna ed esterna all’azienda e di eliminare ogni garanzia normativa a favore di quest’ultima, perché nella situazione italiana – dove solo il 20% degli apprendisti fa formazione – questa deregolamentazione ridurrebbe ulteriormente l’attività formativa.

Formazione universitaria. L’idea di ripensare il ruolo della formazione universitaria attraverso l’abolizione del valore legale di titolo di studio è inutile e dannosa. Inutile perché già oggi il valore legale della laurea si riduce ad essere una condizione necessaria per partecipare ad alcuni concorsi pubblici e per accedere agli esami di Stato ai fini dell’accesso agli albi delle professioni regolamentate. Abolire il valore legale del titolo di studio significherebbe solo ampliare il tasso di discrezionalità e raccomandazione nelle assunzioni pubbliche e nell’accesso alle professioni. Francamente non sembra che ce ne sia bisogno. Se invece il problema è aumentare la qualità delle competenze effettivamente conseguite dagli studenti oltre la formalità del valore legale, allora occorre puntare su altre priorità: sistema nazionale di valutazione, certificazione delle competenze effettivamente acquisite dagli studenti, trasparenza dell’informazione sui risultati conseguiti nelle diverse sedi, parametri incentivanti per il finanziamento.

Colpisce, infine, la convinzione espressa dai due Ministri secondo cui l’università di massa non risponde alle reali esigenze del nostro mondo produttivo. L’Italia è agli ultimi posti tra i paesi sviluppati per numero di laureati, pur avendo percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore anch’essi fanalino di coda per numero di partecipanti. In queste condizioni è inaccettabile la contrapposizione posta dal piano tra la formazione superiore universitaria e non universitaria: entrambe, invece, devono crescere in quantità e qualità.

Non ci sono scorciatoie per migliorare la competitività delle imprese e l’occupabilità dei giovani: occorrono interventi congiunti e convergenti di politica industriale (interventi selettivi per favorire la crescita dimensionale e il riposizionamento qualitativo della specializzazione produttiva) e di espansione e qualificazione del sistema formativo.

Il futuro del Paese non può essere quello prospettato da questo piano: i giovani chiedono innanzitutto un sistema scolastico e universitario più stimolante ed efficace, più aperto alle problematiche del mondo del lavoro, ma non subalterno a un sistema delle imprese che, così com’è oggi, deve profondamente rinnovarsi in direzione di una maggiore qualità e innovazione, attraverso il contributo decisivo di più alti e diffusi livelli di istruzione e formazione. L’impegno indispensabile per incentivare le necessarie innovazioni di processo e di prodotto nelle imprese e il miglioramento della qualità della scuola, dell’università e della ricerca deve innanzitutto essere supportato da una svolta profonda nelle priorità degli investimenti e da uno sforzo nell’individuazione di sinergie virtuose, prive di futuro se traguardate esclusivamente ai bisogni contingenti del mercato.

Per approfondire:
Piano di azione per l’occupabilitá dei giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro

Fabrizio Dacrema

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