Non siamo numeri!
C’è molta retorica e altrettanta superficialità nelle prove dell’esame di stato 2015.
“Non siamo numeri!” – hanno gridato gli studenti contro le prove Invalsi, sostenuti nella protesta dai docenti che, con scientifica acribia, contestano contenuti e metodi di valutazione e difendono la propria professionalità da eventuali attacchi e ingerenze da parte della istituzione scolastica, ad ogni livello.
Queste proteste meritano grande e doverosa attenzione, perché toccano il nocciolo duro del lavoro che si realizza nel sistema e nelle singole scuole.
Poi arrivano gli esami di stato, conclusivi del ciclo di studi della secondaria superiore. Il Ministero invia la prova di italiano, uguale per tutti (l’unica che può essere indifferentemente svolta da studenti di qualsiasi indirizzo), che sarà corretta e valutata dalle singole commissioni d’esame.
Ogni anno, conclusi gli esami e pubblicati i risultati, si scoprirà che le valutazioni non sono omogenee – perpetuando letture di dati ormai scontati – e si produrranno tentativi, altrettanto scontati, volti a rimediare in qualche modo alle ingiustizie, che si determinano all’atto dell’ingresso all’università (stendiamo un velo pietoso sulla vicenda bonus ecc. ecc.).
I commenti a caldo di studenti intervistati e di opinionisti prestigiosi – come da copione – spengono in pochi giorni l’interesse di tutti. Né gli studenti, né i docenti hanno però posto i problemi essenziali: che cosa chiedono prove costruite in questo modo? Qual è il “compito” che viene proposto? Quali criteri di correzione e valutazione si possono applicare a prove così fatte?
Gli studenti la risposta l’hanno data subito: volete che dimostriamo di essere capaci di partecipare ai cosiddetti dibattiti che inondano i vari canali Tv? Bene, al 57% facciamo il saggio breve o articolo di giornale (con quale criterio si valuti l’una o l’altra scelta non è mai chiaro, ma tant’è) di argomento tecnico scientifico.
Si tratta di un tema costruito, fin dalla traccia preliminare e rafforzata in questo aspetto dai due testi forniti dal Ministero (M. Ferraris e D. Marini), secondo la logica veltroniana del “ma anche”, così sarà facile riempire un po’ di colonne del foglio protocollo (non più di cinque), inanellando ragionamenti che possano andare bene per tutti e per nessuno, senza grande fatica argomentativa; che l’ambito di riferimento siano scienza e tecnica è difficile dirlo, ma il Ministero lo ha scritto e quindi sarà così.
Sicuramente quel 2% temerario, che ha scelto l’argomento storico, ha avuto difficoltà a svolgere un tema estremamente complesso, se ha cercato di sottrarsi alla retorica sulla Resistenza e si è confrontato con un nodo molto importante e difficile da trattare, anche per gli specialisti di quel periodo storico: il ruolo dei molti militari dell’esercito “regio”, che seppero fare la scelta giusta in un momento cruciale e che, quella scelta, la pagarono con la vita.
La traccia è suggestiva, ma come pretendere che uno studente sia in grado di ricostruire la cultura del personaggio, erede della tradizione liberale moderata (la frase di Visconti Venosta, riportata tra virgolette) peraltro non citato; di tracciare quel percorso etico-politico risorgimentale, che seppe opporsi alla barbarie del nazifascismo?
Cosa si chiede allo studente: raccontare la Resistenza o cogliere la complessità di un processo storico e di una vicenda umana? Come valutare il lavoro di chi ha riempito le rituali colonne solo con le “fasi salienti” (sic) della Resistenza, senza svolgere di fatto la traccia?
La sciatteria, ormai tradizionale, che colpisce di solito le riproduzioni di opere pittoriche (dimensioni, data, ecc. …) non merita commenti, così come i forzati accostamenti, che rendono quasi incomprensibile la tesi sottesa alla prova di ambito storico politico.
Vale però la pena di soffermarsi sulla traccia, che il Ministero, bontà sua, chiama “analisi del testo”. Prima osservazione: testo o testi? Perché i testi sono due, uno di Calvino e l’altro dell’ignoto autore della nota esplicativa. Questo porta a fare qualche considerazione che, stupisce, i docenti commissari non abbiano sollevato, almeno pubblicamente.
La traccia disattende la prima regola da seguire nella costruzione di una prova: l’analisi di un testo è un’operazione relativa a quel testo e qui, invece, il terzo “compito” chiede di fare una breve dissertazione sul contesto storico cui il brano rimanda; quindi le informazioni contenute nel pezzo di autore ignoto diventano integranti per lo svolgimento di un compito che non ha niente a che vedere con l’analisi di un testo.
Il Ministero evidentemente non ha le idee chiare su cosa sia quella che definisce la prova di Tipologia A. L’accertamento della comprensione di un testo non si verifica attraverso un riassunto, richiesto dalla prima domanda, perché un riassunto è un’operazione di rielaborazione e produzione di uno scritto, che richiede strumenti specifici di valutazione, diversi da quelli che servono a accertare la comprensione.
Poi, al solito, si chiede allo studente di “riflettere”, operazione difficilissima da esprimere e valutare, ma questo è un inciampo in cui il Ministero incorre spesso. Infine, si vuole, pare, accertare la padronanza di strumenti stilistici e usi sintattici, lessicali, ecc. …
Si costruisca una prova precisa, non si facciano vaghi cenni, che non dicono con chiarezza cosa si chiede allo studente ed hanno solo l’effetto di evocare una prova “buona per tutte le ruote”, una linguistica à la carte, direi, operazione non seria, né scientificamente fondata.
Chi produce questi temi ed il Ministro che li avalla dovrebbero avere la cortesia di fornire, non dico una griglia di correzione, che mi pare troppo, visto il livello, ma almeno due righe, in cui si spieghi cosa si vuol chiedere agli studenti e quale/i sia/no la/le soluzione/i possibili. Un po’ di rispetto per il lavoro dei commissari sarebbe forse dovuto.
Le tracce della prima prova scritta
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Immagine in testata di Il sussidiario.net
Vittoria Gallina