Dentro e fuori le mura
Nessuno crede al detenuto. Nessuno crede al ragazzo in classe che non riesce a stare al passo del curriculum. La filosofia insegna a sapere credere e non a credere di sapere.
Insegno filosofia fuori e dentro l’università. C’è sempre un momento nella vita di ognuno in cui ci si chiede se continuare a svolgere il proprio lavoro o se smettere, farlo diversamente o cambiarlo. Quando questo momento arriva ci si accorge che la domanda era già che aspettava. Per chi fa filosofia è una domanda che ti sta accanto, sempre attiva e presente. Ti chiede del senso di quel che studi ed esponi, di come lo apprendi e lo comunichi, a chi e perché, e che ne è di te stesso a pensare del mondo intorno a te. La filosofia è un tale esercizio. Continuo.
È stato allora che mi sono chiesto che se la filosofia si occupa di questioni estreme ed è un tale esercizio di senso e di relazione vere, allora è sui luoghi estremi che occorre portarla per sentire se e cosa ha da dire e, se tace, smetterla come un giocattolo che si anima della sola immaginazione. I luoghi estremi sono i confini della città, confini interni, il carcere, la non scuola, le strade di periferia, gli ospedali. I confine interni della città, sono confini interiori. Luoghi e corpi di solitudine. Una città arriva fin dove una voce trova la parola, finisce quando la voce si strangola in grido o è muta.
Lo studio dell’accademia è indispensabile e necessario per acquisire un ordine di conoscenze e una rigorosa disposizione di ricerca. Ma non basta. Il rischio è l’autoreferenzialità e il monografismo, la riduzione a una linguistica che chiude in una gabbia la parola, facendole perdere la sua natura di relazione. È così che ho cominciato il cammino di una filosofia fuori le mura, sui confini interni della città, l’incontro con i minori in carcere, sulle strade dell’infanzia negata, con i bambini, in ospedale nello sguardo perduto di una madre per un figlio perduto. Nelle scuole di ogni ordine e grado, tra i detenuti dell’alta sicurezza e quelli a fine pena mai. La consulenza non c’entra. Si tratta della disciplina e dei luoghi. Si tratta di interrogarsi su ciò che manca in ciò che c’è e che aspetta solo da noi diventare ciò che veramente è.
In carcere tengo corsi di etica. Il risultato è la modificazione delle relazioni tra loro, in loro, nell’ambiente. Puntuale arriva lo stupore di avvertire che con la filosofia quello che si viene a sapere lo si sapeva già, era già dentro, ma non si sapeva né esprimerlo né avvertire di sapere. Significa dare parola a quel che non c’è o che non si è stati, fare esperienza di sé attraverso l’altro quando si giunge ad un legame di verità per diventare quel che si è. I bambini sono all’inzio della vita. Le loro parole danno principio a sentimenti smarriti. Ricordo lo “spandimento” con cui Marco indicò l’infinito perdersi nell’universo.
La fiducia a questo porta la filosofia in carcere. Nessuno crede al detenuto. Nessuno crede al ragazzo in classe che non riesce a stare al passo del curriculum. In questione è il legame senza pregiudizio. La filosofia insegna a sapere credere e non a credere di sapere. Se pure nella sua storia è stata un privilegio è il momento che diventi un diritto, quello per ognuno di potersi chiedere del senso della propria vita e dei progetti d’esistenza. La filosofia è l’unica espressione di sapere che porta un sentimento nella sua denominazione. Si dice “amore del sapere”, ma è una traduzione che non svela il segreto che la parola greca nasconde nel suo etimo. La filosofia è quel sapere saggiante i legami più importanti. Occorre portarla nelle scuole di ogni ordine e grado, nei luoghi chiusi ed estremi della città, non come una materia d’insegnamento tra le altre, ma come esercizio di una disciplina che fa di ogni sapere l’espressione di un legame.
Giuseppe Ferraro