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Prove Invalsi: se le conosci, non le eviti

Pubblicato il: 28/02/2012 16:57:00 -


Un docente di scuola Primaria, referente presso il suo istituto per i test Invalsi, sfida la cattiva reputazione di cui gode in Italia questo strumento di valutazione ed espone il suo punto di vista: come funzionano realmente le prove, come va interpretata la difficoltà dei test, e quanto utili possono essere agli insegnanti.
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Al loro ingresso nel mondo della scuola (partecipai alla prova Invalsi di Italiano nell’anno scolastico 2004/2005 in una classe IV di scuola primaria), anch’io, come molti colleghi, fui decisamente contrariato dalla novità, adducendo una serie di ragioni che in realtà mal celavano il profondo fastidio verso una prova che, in un modo o nell’altro, mostrava all’esterno la “mia” classe chiamandomi inevitabilmente in causa. Nello stesso tempo, tuttavia, mi aveva favorevolmente colpito quel modo particolare di porre le domande, quell’“invito” implicito e costante alla rilettura del testo, quell’esercizio dell’analisi e della deduzione per trovare la giusta risposta, mai direttamente presente. Pur continuando a parlarne male in pubblico, non riuscivo in privato a negare a me stesso che l’uso di tali prove aveva dato importanti stimoli alla mia attività didattica. Nel tempo, quindi, ho cambiato il mio giudizio nei loro confronti, grazie anche alla lettura di diversi articoli e documenti ufficiali Invalsi riguardanti la modalità di costruzione delle prove e le loro specifiche caratteristiche (1).

Negli ultimi tre anni, poi, all’interno dell’istituzione scolastica dove presto servizio, ho assunto l’incarico di referente per l’attività Invalsi. È stata l’occasione di un confronto diretto con i miei colleghi, ai quali ho fornito materiali, documentazione e informazioni sull’argomento, raccogliendo, nello stesso tempo, le loro numerose osservazioni, esperienze e critiche al riguardo. Io stesso ho partecipato alle rilevazioni in qualità di somministratore ma anche in qualità di osservatore esterno presso altre istituzioni scolastiche, in particolare presso una scuola secondaria di primo grado e una scuola secondaria di secondo grado. Credo di aver maturato, quindi, una discreta esperienza a riguardo, che mi porta ad alcune considerazioni.

Parto da quello che ritengo un dato di fatto: pochi insegnanti conoscono veramente lo “strumento” utilizzato dall’Invalsi per la rilevazione. È anche vero che, a livello di opinione pubblica, su questo argomento dominano più le “frasi a effetto” che una reale informazione (2). Comprendere “come funziona” questo strumento, invece, eliminerebbe alla radice molti equivoci, contribuendo a diminuire sensibilmente l’avversione che il mondo della scuola non ha mai nascosto nei confronti delle rilevazioni nazionali.

Nei vari incontri di informazione/formazione che ho avuto con diversi insegnanti in qualità di referente, mi sono preoccupato in via prioritaria di fornire informazioni circa la modalità di elaborazione della prova e sul suo “modo di funzionare”. Ho sempre esordito con un semplice esempio, un po’ banale ma efficace per introdurre l’argomento. Se devo fare – ragionando per assurdo – un’indagine sulla media esatta dell’altezza di tutti i sessanta milioni circa di italiani e per fare questo intendo misurarli tutti, ho bisogno di uno strumento per poter effettuare le misure come, per esempio, un’asta metrata. Ora, quanto deve essere alto questo strumento? Più di due metri? Ovviamente sì, ci sono di sicuro italiani che sono alti più di due metri. Allora, 2 metri e 30? Ma sono proprio sicuro che in Italia non ci sia qualcuno che possa essere più alto? Bè, per evitare problemi ed essere assolutamente sicuro che lo strumento che utilizzerò sarà in grado di misurare tutti, ma proprio tutti, utilizzerò un’asta di quasi tre metri. Io sono assolutamente certo che non troverò nessuno in Italia che sia più alto di tre metri e, nello stesso tempo, sono altrettanto certo che quello strumento sarà in grado di misurare tutti gli italiani.

Ecco, la prova Invalsi, per certi aspetti, funziona così: la sua alta difficoltà è dovuta proprio al fatto che deve essere uno strumento in grado di misurare anche il livello di apprendimento dell’alunno cosiddetto “eccellente”, cioè di quell’alunno che mostra un grado di comprensione di un testo o di elaborazione di contenuti matematici ben al di sopra della media.

Nelle diverse indagini internazionali a cui ha partecipato anche l’Italia (come, per esempio, le indagini OCSE-Pisa), la popolazione scolastica oggetto di una particolare rilevazione viene suddivisa per fasce in base ai risultati ottenuti dalla rilevazione. Ogni fascia rappresenta un livello di performance che parte dal livello 1 (quello più basso), fino a un certo livello che rappresenta la fascia di eccellenza. Ne abbiamo un esempio nel Rapporto Nazionale Pisa 2009, scaricabile dal sito dell’Invalsi, dove in una tabella viene illustrata la descrizione dei livelli di competenza per la scala complessiva di “literacy” in lettura (3). Qui vengono presi in considerazione 6 livelli di risultato con le relative caratteristiche dei compiti richiesti per ciascun livello. I livelli 3 e 4 sono considerati livelli intermedi e sono quelli di solito più numerosi in termini di percentuale perché rappresentano un alunno che esprime un livello medio di abilità e competenze. Un livello medio, appunto, non mediocre. È il livello che generalmente ci si attende da un alunno di quella età. Le fasce inferiori sono di livello più basso, quelle che rappresentano un alunno che esprime un livello minimo di abilità e competenze. Di contro, la fascia 5 è quella al di sopra della media, mentre la fascia 6 è la cosiddetta “eccellenza”. Solitamente le fasce meno numerose in termini di percentuale sono proprio la fascia 1 (che, nel caso dell’indagine Pisa 2009 viene suddivisa in due fasce, 1a e 1b) e la fascia più alta (in questo caso la fascia 6). La media OCSE-Pisa 2009 del livello 1 (1a + 1b) è di 5,7% mentre quella del livello 6 è di 0,8%. I livelli 3 e 4 (quelli che, come abbiamo detto, possiamo considerare intermedi) sono quelli più numerosi: insieme raccolgono 52,9% degli alunni.

Ora, in un normale gruppo classe possiamo attenderci la stessa distribuzione di livelli di abilità e competenze: gli alunni con difficoltà più evidenti e con livelli di apprendimento molto bassi rappresentano generalmente una parte minoritaria della classe, e ancor di più le cosiddette eccellenze. Gli altri alunni (la maggior parte) si attestano su livelli medio, medio-bassi o medio-alti.

Le prove Invalsi sono strutturate in modo tale da comprendere, nella misurazione dei livelli di apprendimento, non solo vari ambiti di competenze specifiche (4), ma anche tutte le fasce di livello e questo è possibile solo se le prove vengono costruite appositamente per questo scopo. I quesiti, quindi, oltre che a coprire tutta la gamma delle diverse competenze disciplinari, hanno coefficienti di difficoltà diversi (5).

Un ristretto numero di domande ha coefficienti molto alti di difficoltà e sono destinate alla misurazione della fascia di “eccellenza”. A questi quesiti, ovviamente, sarà in grado di rispondere solo un numero esiguo di alunni. Il test non dovrà dirci se questa fascia di eccellenza è esigua, ma QUANTO è esigua, consapevoli del fatto che oltre a un certo valore percentuale è impossibile che si vada. A questo punto è chiaro che un alunno di livello medio, cioè con un livello di apprendimento adeguato per la sua età, attesterà la sua “performance” su valori medi. In pratica, risponderà a un 60-70% di quesiti, sbagliando, probabilmente, la maggior parte dei quesiti con livello di difficoltà più elevato.

Dunque, un primo aspetto che molti docenti dovrebbero comprendere è questo: è del tutto “normale” che nelle prove Invalsi ci siano “domande difficilissime alle quali nemmeno gli adulti sanno rispondere”, come molti dicono. Ed è bene che ci siano, altrimenti non sarebbe possibile distinguere gli alunni di livello medio, quelli di più alto livello e quelli eccellenti che si possono sempre trovare in una classe mediamente numerosa. Pensando ad alunni di scuola primaria, ad esempio, non è raro trovare in una classe alunni che mostrano livelli di comprensione di un testo e di interpretazione paragonabile a quelli di un adulto. E se per un adulto sono livelli normali, per il bambino rappresentano l’espressione di un’eccellenza. A quesiti di difficoltà più elevata, dunque, risponderà solo quel ristretto numero di alunni. Uno, due o al massimo tre in una classe da 20, per esempio. E gli altri che non hanno risposto? Hanno problemi? Non comprendono adeguatamente il testo? No, sono del tutto normali, perché è del tutto normale che la maggior parte degli studenti non risponda correttamente a quella specifica fascia di quesiti. Anzi, sarebbe anomalo il contrario, cioè la risposta corretta a tutti quei quesiti da parte di quasi tutti gli alunni, se non di tutti. Più che anomalo, per la precisione, sarebbe solo il segno di qualche piccolo intervento “correttivo” da parte dell’insegnante poco professionale o troppo ansioso della prestazione dei suoi alunni.

Per la mia esperienza, posso affermare che i docenti, che hanno compreso questi aspetti e che hanno poi approfondito la natura e la funzione dello strumento di rilevazione, hanno cambiato il loro modo di considerare le prove Invalsi. Le “affrontano” con molta più tranquillità, consapevoli del fatto che, generalmente, i risultati rifletteranno la situazione della classe così com’è. Gli alunni che già mostrano elevate competenze disciplinari, otterranno risultati molto buoni o eccellenti; coloro che le esprimono a livello medio, faranno la prova a livello medio. Chi, per vari motivi, ha delle difficoltà, avrà di certo dei risultati conseguenti (rispetto ai quali il docente, soprattutto se si tratta di alunni di scuola primaria, dovrà fare grande attenzione nella “gestione” dei risultati, come avrò occasione di scrivere in un prossimo articolo). Quando poi collegheranno i risultati alla situazione di contesto (è questo il senso della rilevazione dei dati di contesto richiesti dall’Invalsi, altro che “invasione della sfera privata”!), gli stessi acquisteranno maggiore significato. Per l’insegnante tutto ciò rappresenterà solo un ulteriore strumento di conoscenza della sua classe, un ulteriore elemento utile per la valutazione che è, e rimane, una sua specifica competenza professionale.

Dunque, chi conosce realmente le prove Invalsi, a mio avviso, non solo non le eviterà, ma non avrà problemi a utilizzarle nell’attività quotidiana, non tanto nella loro forma (un eccessivo uso dei test rimanda a una forma di addestramento del tutto inutile e vuota), ma soprattutto come strumento dal quale ricavare esempi di quesiti finalizzati allo sviluppo delle competenze disciplinari.

E il giorno della prova ufficiale non sarà altro che un giorno di probabile conferma di quanto l’insegnante aveva già compreso durante la normale attività didattica.

(1) Mi ritrovo in pieno nelle parole di Daniela Notarbartolo che riporta l’esperienza di mutamento della considerazione riguardo alle prove Invalsi da parte di docenti che hanno partecipato ad alcuni incontri di formazione da lei coordinati: “Abbiamo assistito alla ‘solita’ parabola, solita per chi ha svolto analoghe operazioni in altre parti d’Italia: i partecipanti passano (condizioni di ingresso) dal giudizio negativo, non di rado per scarse conoscenze se non per partito preso, allo stupore per la qualità e la quantità dei dati, all’intuizione della opportunità di riflettere criticamente e con profitto non solo sui dati ma sul fare scuola, fino al capovolgimento dei giudizi con cui sono entrati […]”. D. Notarbartolo, SCUOLA/ Presidi, Invalsi, trasparenza: qual è il filo rosso che li unisce?
(2) Vedi l’articolo di Stefano Stefanel, “Caccia” all’Invalsi.
(3) Rapporto Nazionale Pisa 2009, Invalsi, p.35.
(4) Si vedano i “Quadri di Riferimento” scaricabili dal sito Invalsi
(5) Sull’argomento si veda il “Rapporto tecnico sulle caratteristiche delle prove Invalsi 2011” scaricabile dal sito Invalsi.

Stefano Bazzucchi

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