“Sono cose che ho fatto”
La città è piena di formazione professionale. Nei luoghi deputati e fuori, nelle aziende, nelle produzioni, nelle strade. È piena di formazione e di ragazzi e ragazze che pensano alla formazione e, insieme, alla loro vita futura, a come sarà, a se e quando “io ce la farò”.
Ore 8.00. Pietro è in autobus. Deve entrare al Centro di Formazione Professionale Fomal a Bologna alle 8.30. È d’accordo con i suoi amici Amed, Lucia, Miriam e Giovanni di incontrarsi prima nel parco di fronte, per decidere se entrare oppure fare “fuoco”. Sono preoccupati per le verifiche. Oggi hanno quella di cucina, dopodomani quella di pasticceria. La prossima settimana hanno sala, bar e area linguistica. E poi di seguito l’area matematica e le altre materie teoriche. Nell’Istituto alberghiero, dove andava l’anno passato, Pietro aveva fatto le prime verifiche dopo le medie. Poi, visto che non erano andate bene, non si era più presentato.
Il fallimento a scuola, l’andare via, ha i suoi passaggi. Quelle prove – si è capito poi – erano quasi tutte verifiche di teoria e a lui “studiare non riesce troppo bene”. Gli piace la pratica, “fare le cose”. Così ora è preoccupato. Perché è la prima volta che fa delle verifiche pratiche in “questa strana scuola”. Ma è anche curioso. Di vedere come se la cava. Da qualche parte sente di poter riuscire bene. Pensa a come sarà la prova. La tutor del corso ha spiegato in classe che il docente di cucina sorteggia le ricette che hanno fatto a lezione e che le abbina a ciascun alunno.
A lui stare in cucina piace. Le ricette le ha riguardate a casa. Ci vuole provare. La cosa che lo preoccupa è che – come tutti i suoi compagni di classe – deve, poi, presentare il suo piatto al docente di cucina, alla tutor, al coordinatore e alla direttrice che lo assaggiano. Questo lo imbarazza. Non è abituato a parlare davanti a tante persone. Dicono però che è importante. “Però queste sono cose che ho fatto; ed è meglio così piuttosto che studiarle sui libri”. “E non è da meno riuscire a imparare le cose in modo diverso da quell’altra scuola, l’importante è impararle!” Andare o non andare? “Certo che non è tanto semplice neanche stare fuori e non andare”. “Chiamano a casa tutte le volte che uno non si presenta o addirittura se arriva in ritardo…”. “Tanto vale andare e provarci”.
Le domande di Pietro si intrecciano con le nostre. Si è convinto? Quando si è convinto? Sono solo le nostre regole e i nostri apparati di aiuto che lo stanno contenendo e spingendo “a stare dentro”? O sono in atto altri aiuti? “Adesso ne parlo con i miei amici”. “Dicono di provarci”. Il gruppo dei pari spesso rafforza e, per farlo, costruisce uno spazio di pensieri condivisi. Dunque la prova è al centro di pensieri comuni, anche fuori, a casa, per strada, nel parco. L’esame che porta ad avere una qualifica professionale – la prova per eccellenza – è strutturato come le prove di verifica. E le materie non pratiche? Anche l’area linguistica, quella matematica, si fanno leggendo, scrivendo, costruendo algoritmi e calcoli intorno a cose che interessano. Così, benché resista il dubbio, si fa strada in Pietro l’idea che in effetti quella scuola può essere piacevole e non solo soddisfare la sua intenzione di prepararsi bene per andare a lavorare.
Cresce la percezione della possibilità. È a questo punto che spesso arriva l’esperienza dello stage. Sono tantissime ore nelle quali si sta a imparare direttamente in un’azienda. Seguiti dal coordinatore, dal tutor e dai docenti. Dall’aspettativa incerta su di sé si passa all’attesa positiva. Lo stage funge spesso da “traino formativo”. Pietro dice che non vede l’ora. Anche se si è dovuto abituare a limitare di molto l’uso del cellulare e ad avere sempre la divisa pulita e in ordine così come il materiale che serve.
È una bella fatica fare tutto questo, ma poi non troppo. Imparare le cose facendole, imparare un mestiere, imparare a comportarsi in un ambiente di lavoro: questo è quello che ora gli interessa e gli piace.
Federica Sacenti